Perché leggere “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese, “l’uomo e il suo destino nel labirinto del mito”

“Dialoghi con Leucò” non è un racconto, non è un romanzo, è una raccolta di dialoghi, più precisamente una raccolta di brevi racconti in forma di dialogo, dialoghi improbabili, impossibili, irreali, profetici e visionari.

Il libro più amato da Cesare Pavese, quello che aveva con sé al momento della morte in una vuota e fredda stanza d’albergo, quella fatale notte del 27 agosto 1950, quando Pavese decise di mettere fine alla sua vita, perseguitato da un profondo male di vivere, un inguaribile disagio esistenziale.

Aveva solo 42 anni, intellettuale impegnato e appassionato, riconosciuto, stimato, premiato, ma Pavese aveva dentro di sé, già da tempo e nonostante tutto, un tormento, il “vizio assurdo”, il male di vivere, l’angoscia e il desiderio della morte, <<questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo>> scriverà nella sua poesia più bella e più struggente, secondo me, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

Egli percepiva la condizione dell’uomo come tragica, segnata dal dolore e dalla tragedia, vedeva l’individuo solo, destinato a combattere contro il suo destino e a soccombere. Certo Pavese soffriva molto la solitudine, la mancanza di relazioni e di affetti importanti. Le delusioni amorose lo avevano gettato nello sconforto, ma è proprio dei grandi uomini riconoscere una condizione generale nel particolare, alzare lo sguardo oltre la propria esperienza e comprendere la situazione dell’uomo, dell’umanità tutta.

“Dialoghi con Leucò” è il libro che esprime mirabilmente questo male di vivere, la sua tragica visione dell’esistenza, è anche il meno neorealistico, il più lirico, simbolico, espressione di uno scrittore, che non si può e non si deve racchiudere nella definizione riduttiva per lui di “neorealista”.

Questa visione dell’esistenza è narrata, non a caso, attraverso la rielaborazione, ridefinizione dei miti greci e della loro visione fatalistica della vita, evidente nella crudele verità che nessuno può sfuggire al proprio destino.

Gli uomini, emerge con chiarezza, sono condannati a vivere nella illusione di ricevere doni e felicità dagli dei, ma tutto ciò ha un prezzo, la vita stessa. Ansia di superare il finito, se stessi, essendo ogni volta ricacciati sulla Terra, per un fato crudele e insondabile e per dèi capricciosi e volubili tanto che, cito dai “Dialoghi con Leucò”, <<per esprimere un fiore distruggono un uomo>>. “Dialoghi con Leucò” ci rivela l’anima sensibile e tormentata di un grande uomo e di un valente scrittore, che a me fa pensare a un’opera di un altro gigante del passato, “Le operette morali” di G. Leopardi dove, come nel libro di Pavese, l’uomo è tormentato, ma non del tutto sconfitto, da un destino che non può cambiare.

Ma dov’è il riscatto dell’uomo per il nostro scrittore? Nel ricordo che lascia: <<L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti.>> (da “Dialoghi con Leucò”).

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