Testo: Antonio Franchini racconta “Il fuoco che ti porti dentro” insieme a Emanuele Trevi

“Materno” è una parola che sta bene con “calore”, “latte”, “affetto” e, più di ogni altra cosa, “amore”. Antonio Franchini, però, non scrive di ciò che “sta bene”; nel suo ultimo libro, “materno” si accompagna a un’altra, meno buona, parola: odio. Dopo la presentazione in anteprima a Napoli, lo scrittore-editore del gruppo Giunti-Bompiani approda a Firenze, dove racconta Il fuoco che ti porti dentro insieme a un altro autore d’eccezione, Emanuele Trevi.

“L’amore per i propri consanguinei è impossibile e pure fatale: è il nostro destino”. Sono parole di Chiara Gamberale che, per Trevi, simbolizzano l’ossimoro che il collega e amico è riuscito a imprimere nella carta; perché il suo romanzo evoca tutta l’“impossibilità e fatalità dell’amore per chi ci ha messo al mondo”. Del resto, si tratta di un conflitto che anima da sempre i rapporti fra genitori e generati, quell’odi et amo che getta luci e ombre su ogni relazione d’amore – psicoanaliticamente parlando, l’impasto di Eros e Thanatos come fonte di ogni ambivalenza.

È questa la storia che Franchini sceglie di raccontare. Nella sua “prosa mista” – che mescola autobiografia, fantasia, saggistica; e anticipa un maestro del genere, Emmanuel Carrère –, parla di Angela, “una donna corrosa, divorata da un fuoco di ostilità nei confronti del mondo che non risparmia i suoi consanguinei” continua Trevi; e l’autore conferma: “Mia madre era un mostro perché lo era. E voleva esserlo”. È importante il fattore volontario, cosciente, della cattiveria di Angela – Franchini la chiamerà per nome durante tutto il resto dell’evento, così da trattarla come la creazione letteraria in cui l’ha sublimata –, poiché dà la misura del personaggio e del mito (familiare) che si è costruito intorno a lei.

Fin da quando ricorda, l’autore non ha mai potuto sopportare quei suoi modi trasgressivi, volgari, da femmina scandalosa e che sa di esserlo; e il disprezzo era tanto più acuto quanto più era incompreso nella cerchia esterna alla famiglia: “Quanto è simpatica tua mamma” è la beffa inconsapevole (degli amichetti di scuola, del vicino di casa) che ha subìto l’Antonio bambino, adolescente e, infine, adulto – ogni volta aggiungendo una nuova sfumatura al familiare odio di casa. Ma c’è anche un altro aspetto che concorre a questo peculiare ritratto di madre, ovvero la sua ostinata negatività. Nelle parole dello scrittore, si tratta del retaggio contadino sannita: “Tutto ciò che ha a che fare con il bene era totalmente svalutato da loro”; loro, poiché Franchini tira in ballo pure la nonna – altra faccia del femminile divorante: nel segno di Ecate, più che di Demetra –, anch’essa allergica al crescente benessere delle comunità urbane degli anni ‘70.

Insomma, un egoismo feroce, di “competizione non-capitalistica di tipo primitivo”, che afferma la “potenza negatrice” del materno. Cionondimeno, è impossibile generalizzare: non solo perché il lavoro di ritrattista non può eludere la soggettività dell’autore; ma anche e soprattutto per la molteplicità dei materni in azione. Perfino nella medesima famiglia, la forza aggregante di un’emozione, anche una densa come l’odio, non può riverberare fra le generazioni e restare sempre fedele a sé stessa. Lo rivela Franchini, quando descrive le diverse forme di cattiveria della genitrice e della gran-genitrice: “Mia nonna era profondamente cattiva, ma nella sua cattiveria era tranquilla”. Eppure, questa tranquillità, passando di madre in figlia, si trasforma in conflittualità; per Angela, in un “voler assomigliare alla plebe e, al tempo stesso, temerla”, ovvero all’ambivalenza nei confronti di quelle radici che affondano nel pessimismo rurale alla homo homini lupus.

La madre della madre, con il suo materno sannita partenopeo “puro”, rappresenta un femminino ferino che nemmeno la mamma “col fuoco dentro” è in grado di accogliere a pieno. Evidentemente, c’è uno scarto irriducibile fra le generazioni: qualcosa resta, qualcosa si perde o, mutuando l’assioma termodinamico di Lavoisier, “tutto si trasforma”. Perché così è la vita, sempre mutevole, capace di replicarsi ma mai di ripetersi; e non c’è odio che tenga, per quanto possa opporsi, con le unghie e con i denti, al cambiamento. Odio, peraltro, che è anche forza necessaria, senza la quale “amore” sarebbe solo una parola vuota, incapace di dare sostanza a quel “materno” che, nel bene e nel male, è la fonte della vita.

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