USA: cantiere a stelle e strisce

L’elezione del 2020 passerà alla storia per diversi motivi: Biden è contemporaneamente il candidato che ha ottenuto il maggior numeri di voti nella storia americana, (più di 75 milioni) e la persona più anziana a raggiungere la nomina di Presidente (compirà 78 anni a breve); la senatrice Harris sarà la prima donna di colore e di origine del sud-est asiatico a ricoprire l’incarico di Vice-presidente; e infine Donald Trump è stato sconfitto, fallendo il tentativo di rielezione: era dal lontano 1992 che un Presidente non perdeva le elezioni dopo il primo mandato. Sebbene dal punto di vista dei democrats la vittoria di Biden sia di fondamentale importanza, non sono altrettanto entusiasmanti i risultati raggiunti dai candidati dem nella Casa dei rappresentanti e nel Senato, rispettivamente con una maggioranza che si è assottigliata ad 8 voti e con il secondo a probabile maggioranza repubblicana. Tale discrasia si spiega tramite una spaccatura nel partito democratico che, con l’elezione ormai conclusa, non può attendere ulteriormente di essere affrontata. 

A differenza del sistema elettorale italiano, in America vige una perfetta divisione tra potere esecutivo e potere legislativo: come il Presidente è eletto direttamente ogni 4 anni, i membri della Casa dei Rappresentanti sono eletti ogni 2 anni, mentre i senatori vengono eletti ogni sei anni a rotazioni di un terzo dei 100 membri. Tale complicato meccanismo comporta la possibilità che si abbia un Presidente di un partito ed una, se non entrambe, delle camere dell’altro. Al momento si profila un’ipotesi del primo tipo: se i repubblicani dovessero ottenere di nuovo la maggioranza nel Senato, Biden dovrebbe scendere a pesanti compromessi per passare una qualsiasi proposta di legge.

Questo scenario, che già da sé richiederebbe immense capacità di mediazione tra partiti, viene reso ancora più complicato dal fatto che ormai nel partito democratico americano convivono due anime ben distinte: una più centrista e moderatamente progressista, abituata a raggiungere compromessi con l’altra sponda e un’ala “socialista” che invoca a gran voce riforme drastiche e sistemiche. Il trio istituzionale dei democratici (Biden, la speaker Nancy Pelosi ed il senatore Chuck Schumer) rappresentano l’emblema dell’area moderata, mentre i sentori Bernie Sanders, Elizabeth Warren e la deputata Alexandra Ocasio-Cortez sono i campioni del socialismo made in USA.

Durante la sua campagna elettorale Biden è riuscito, non senza sforzi, ad unire le varie anime dei democrats e a portarli alla vittoria, ma il suo programma si basa comunque su punti programmatici pesantissimi che senza una mediazione non hanno speranza di passare in Senato: lotta al Coronavirus, aumento delle tasse ai ricchi e lotta al cambiamento climatico sono solo alcuni di essi. 

Il ridimensionamento delle ambizioni dei democratici nel Congresso è sintomo di alcuni calcoli politici che, di fatto, si sono rivelati errati. Non vi è stata l’auspicata “Blue Wave” che avrebbe consentito ai dem una maggioranza schiacciante, e anzi la maggioranza nella Casa dei Deputati si è persino ridotta. Biden ha vinto grazie a Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, stati del Nord-Ovest industrializzati ma da decenni in declino economico e sociale, mentre in Florida ed in Texas ha clamorosamente perso il voto delle minoranze latino-americane.

In concomitanza, i parlamentari di stati tradizionalmente democratici si affermano grazie a posizioni sempre più progressiste, mentre nei cosiddetti “battlegrounds” i candidati dem perdono metodicamente proprio perché vengono additati come “socialisti” dai repubblicani. Come è possibile dunque che il partito di un candidato che ottiene più di 75 milioni di voti si trovi in minoranza? La risposta più lucida a questa domanda sembra averla data Mitt Romney, senatore repubblicano e sfidante di Obama alle presidenziali del 2012: “abbiamo perso perché questa è stata un’elezione sulla persona. Si è votato o per Trump o contro di Trump. Eppure le vittorie dei candidati repubblicani ci dicono che nel paese la maggioranza sostiene valori conservatori. Le persone dunque non vogliono un aumento delle tasse e la de-carbonizzazione, ma un governo federale che non le opprima”. 

La verità dunque è che i democratici hanno ancora molta strada da fare per capire cosa vogliono diventare in una nazione che tra 30 anni sarà davvero multietnica: cercare di essere contemporaneamente il partito delle elites, dei sobborghi e delle minoranze non può più funzionare.  

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