Vaticano, renuntiatio papale: profili storici e giuridici

Vedere Papa Francesco muoversi in carrozzella ha fornito l’occasione per una nuova riflessione circa le sue ipotetiche dimissioni.

Difatti, la rinuncia all’Ufficio di Vescovo di Roma, nell’avvicendarsi delle stagioni, nel sovrapporsi delle epoche, ha affascinato canonisti, giuristi, fedeli, storici, letterati, filosofi e non solo.

Si può infatti sostenere che la renuntiatio nasca giuridicamente con la formazione stessa della successione petrina nel I secolo e teologicamente con la stessa istituzione vicaria conferita da Cristo a Pietro.

Eppure, le prime rinunce alla tiara papale nei secoli passati raramente sono state frutto di una libera scelta quanto piuttosto sono state determinate dalle efferate persecuzioni subite dai Cristiani, da coazioni fisiche e spesso, pressioni di natura diplomatica.

Oggi, erroneamente si ritiene che Ratzinger o Celestino V siano i primi pontefici ad aver rinunciato alla tiara papale.

Secondo la leggenda agiografica, sarebbe Clemente Romano, il primo caso riconosciuto di rinuncia al soglio papale annoverato nelle fonti storiografiche cristiane. Il suo Pontificato si colloca tra gli anni 68 e 75 d.C.

La storiografia sul tema riconosce alla controversa figura di Clemente Romano la paternità della lettera ai Corinzi: nella stessa, il Pontefice rinunciante si rivolge ai cittadini di Corinto e di Roma, cercando di smorzare gli accesi contrasti che erano insorti.

Secondo la tradizione, Clemente Romano venne esiliato nella penisola di Crimea e qui gettato in mare con un’ancora al collo.

Tra coloro che deposero la tiara, anche Ponziano che nel 231 d.C. siede sul trono di Pietro. La sua rinunzia è annoverata univocamente dalle fonti storiografiche e viene considerata il primo atto di rinuncia papale compiuto in maniera spontanea e la prima documentata come tale nella storia della Chiesa.

Le fonti storiografiche ci riferiscono, poi, un altro caso di rinuncia in relazione alla figura di Silverio che ascese al soglio pontificio nel 536, e le cui vicende suggeriscono di discorrere più di una vera e propria deposizione che non di rinuncia, laddove la sua abdicazione risultò obbligata dai diversi intrighi di palazzo che lo minacciavano. La sua elezione venne fortemente favorita dalla casta dei Goti che, la tribù barbarica che si stanzio’ in Italia ed a Roma a seguito del collasso della struttura imperiale romano-occidentale.

Tale iniziale appoggio costò a Silverio la successiva deposizione, nella misura in cui i Bizantini, che regnavano nella parte orientale dell’Impero Romano, lo accusarono di tradimento, riuscendo ad ottenere la deposizione ed il successivo esilio.

Fatto questo brevissimo e limitato excursus, quanto emerge è che sin da subito i primi giuristi decretisti ammisero la possibilità per il Papa di rinunciare al trono di Pietro, già nel 1190 ca. Baziano annoverava tra le cause il desiderio di abbracciare la vita completativa, l’infermità la vecchiaia; Uguccione da Pisa le confermava nella sua Summa decretorum, (1188-1190 ca.) aggiungendo come causa di ammissibilità dell’atto, l’utilità al Bene della Chiesa.

Nel 1206, con la decretale di Papa Innocenzo III, Nisi cum pridem, la rinuncia del Pontefice viene definita per analogia con quella dei Vescovi. Debolezza fisica, dovuta a malattia o vecchiaia, la mancanza di qualità intellettive, l’aver commesso un crimine, l’irregolarità dell’elezione, la maldicenza del popolo, lo scandalo, queste le sei cause legittime di rinuncia indicate nella disposizione.

Le stesse, invocate il 13 dicembre del 1294 nella rinuncia di Papa Celestino V, saranno poi cristallizzate nella Costituzione Quoniam aliqui di Bonifacio VIII, recepita nel Liber Sextus nel 1298.

Grazie a successive elaborazioni del Diritto Canonico si è trovata una sua positivizzazione nel Codex Iuris Canonici del 1917 e poi in quello vigente, Giovanneo-Paolino del 1983.

A rigore giuridico è necessario notare come il canone 221 del Codice del 1917, che statuiva in modo generico, unicamente che per la validità non era richiesta nessuna accettazione neppure dal Collegio cardinalizio, ovvero il corpo elettore del Papa.

 Il canone 332, paragrafo 2 del Codice di Diritto Canonico del 1983 viene ribadito come la rinuncia sia un atto che legittimamente si colloca nell’ordinamento Canonico, in quanto esplicitamente contemplato dal Codice, aggiungendo due necessarie condizioni: la libertà del rinunciante e la debita manifestazione della volontà in modo conforme al Diritto.

Elementi imprescindibili affinché un atto tanto oneroso, grave, pregnante di significato possa essere compiuto soltanto nell’interesse superiore della Chiesa.

In particolare, è necessario far emergere la reale peculiarità della rinuncia del Santo Padre che ne connota l’unicità: essa non deve essere presentata ad alcuna istanza e pertanto non necessita di accettazione alcuna. Non esiste infatti nessuna autorità umana a lui superiore che possa respingere o accogliere la sua intentio renuntiandi.

Ad ogni modo, dietro le tecniche giuridiche, gli assetti storico-culturali, le idealità e le ideologie, di qualsiasi natura, l’istituto della renuntiatio pontificalis continua a suscitare grandi interrogativi non solo nel mondo Cattolico.

 Tale partecipazione, anche del laicato alla vita pubblica cristiana, disegnano uno spronare incoraggiante per il cammino della Chiesa.

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