Verba manent: 25 aprile, ancora parliamo di fascisti e antifascisti

Oggi è il 25 aprile e, in un Paese con un senso civico e socialmente progredito, questa data dovrebbe essere una ricorrenza per tutti. L’Italia viene liberata dal regime nazi-fascista, una tragica parentesi storica iniziata con la presa di potere di Mussolini, suggellata dall’alleanza con Hitler e culminata con la complicità verso il genocidio di ebrei, zingari, omosessuali e via enumerando. È così difficile riassumere il significato di oggi? 

Il seme della radice di ogni problema che affligge l’Italia è l’essere avvinghiati a discorsi passati, privi di fattuale attualità, vecchi, retorici, inconcludenti. Tra questi, soprattutto la diatriba fascisti – antifascisti. Non abbiamo avuto Norimberga, ma abbiamo sviluppato una Costituzione frutto di diversità storiche e politiche unite nell’intento di fornire una base di valori per il futuro di tutti. Il tribunale l’abbiamo scritto, messo nero su bianco sancendo dei concetti perenni: dal principio di eguaglianza alla libertà di manifestazione del pensiero, dal diritto di associazione alla presunzione di innocenza, passando per la libertà di iniziativa economica. Pensateci bene: in una monarchia, limpidamente in un regime poi, tutto ciò che oggi viene dato per scontato era un’aspirazione della comunità civile. Oggi  quell’aspirazione è realtà, abbiamo finanche il compito di strutturarla adattandola alle esigenze del presente e ai mutamenti del futuro – l’uguaglianza in tempi di immigrazione, la libertà di manifestazione del pensiero in tempi di Intelligenza Artificiale, la libertà di iniziativa economica in tempi di impresa digitale. 

Le sfide del mercato globale, che non riguarda solo le aziende ma anche i rapporti tra Stati, la qualità della vita delle città, lo standing delle università italiane rispetto a quelle mondiali (e gli esempi potrebbero susseguirsi all’infinito), impongono un cambio di rotta radicale: a partire dall’importanza che si dà ad alcuni temi rispetto che ad altri. Che senso ha accendere la tv e, da una settimana, sentir parlare solo di chi ha fatto meglio 80 anni fa? Mentre il gender pay gap – quanto guadagnano le donne rispetto agli uomini – è salito al 10.7%, il deficit-Pil nel 2023 in Italia ha raggiunto il 7.4% (più alto in Europa) e il debito pubblico è pari al 137% del Pil, le filiere di tradizione nazionale stanno scomparendo, le eccellenze della manifattura italiana oggi sono in mano a gruppi stranieri, con sede legale in Stati paradiso, alcuni dentro la stessa UE, perché da noi il sistema fiscale è assurdo e in seno all’Europa manca una parità fiscale. Perché, ad esempio, nessuno nei canali di comunicazione generalisti discute dei migranti italiani del XXI secolo, i cosiddetti “cervelli in fuga”? Nel 2022 il 44% di chi è partito per studiare e lavorare all’estero aveva meno di 34 anni; spesso chi emigra per formazione o lavoro, poi resta, perché l’accesso alle carriere è più facile, i salari sono mediamente più alti (Istat 2023: salari italiani inferiori di €3.700 in media rispetto ai salari Ue) e la qualità della vita è mediamente migliore (Commissione europea, 2023: l’Europa viaggia a tre velocità, tra le migliori dieci nessuna è italiana, tra le peggiori dieci tre sono italiane, Palermo, Napoli e Roma).

Qualcuno potrebbe obiettare: la disputa fascisti contro antifascisti vende in tv. Verissimo, diremmo noi; ma questa non è la soluzione al problema, bensì una sua ulteriore ramificazione. Un cambio di rotta, in termini di mentalità, è quantomai necessario. Iniziare a pensare globale, mettere da parte il passato. 

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