Verba manent: domande e pensieri sul giornalismo libero

Ieri, come ogni anno dal 1993, in un silenzio piuttosto diffuso si è celebrata la  giornata mondiale della stampa libera. Il “World Press Freedom Day”, però, è passato in sordina rispetto a notizie più accattivanti, più intuitive e più pop. Se, tuttavia, scrivessimo che da gennaio a oggi sono già stati uccisi 7 giornalisti e 568 sono in carcere attualmente, forse il tono della notizia cambierebbe. Secondo l’Onu, l’85% delle persone vive in Paesi dove la libertà negli ultimi cinque anni è diminuita; RSF afferma che 31 Paesi siano in una situazione “grave”, rispetto ai 21 di due anni fa.

Mentre scende la qualità del giornalismo, che addirittura in alcuni Stati è ritenuto illiberale, come Cina, Iran, Afghanistan, Vietnam e Corea del Nord, cresce la disinformazione. Propagande e complotti, con la complicità del web, prosperano e raggirano il convincimento di lettori, ormai divenuti utenti passivi in balìa della rete. Basti osservare le notizie relative al conflitto tra Russia e Ucraina, con l’esempio più recente: l’attacco con droni avvenuto al palazzo del Cremlino. Mosca accusa Kiev, Zelensky nega. E le rispettive stampe seguono con campagne informative di parte. 

E se il riferimento a regimi autoritari, dove giocoforza la propaganda è manipolata dal potere, può sembrare lontano, si può riflettere anche su quale sia la situazione dalle nostre parti. È giusto che i giornali siano in mano a editori apertamente schierati, con la conseguenza inevitabile che essi dettino la linea sulle proprie pagine? Quanto è libero un sistema che sì deve essere finanziato – e pure tanto – ma che guarda i fatti sotto un unico punto di vista? Come può sentirsi correttamente informato e tutelato un cittadino che legge articoli di illustri penne nelle vesti di ufficio stampa di questa o quella procura, che condanna alla gogna mediatica un indagato spacciandolo per colpevole?

La situazione si complica se si riflette su due aspetti: la presenza di governi populisti e autoritari vicini a noi, come Polonia e Ungheria, che calpestano i principi dello stato di diritto; l’innovazione, se mal governata, può danneggiare la qualità dell’informazione. Pensiamo all’intelligenza artificiale, che può creare contenuti verosimili che, una volta diffusi, disinformano i destinatari. La foto dell’arresto di Donald Trump è stato un primo segnale, come anche quella più ironica, ma non per questo meno preoccupante, che ha ritratto Papa Francesco con un giubbotto lussuoso. 

La differenza tra reale e artificiale si sta offuscando, la completa percezione della notizia da parte della collettività si è affievolita. Basta poco per ingannare. 

Da queste righe arrivi dunque un appello alla politica: rispettate il giornalismo, anche quando può sembrare irriverente, può dare fastidio. Se la risposta alla domanda diventa facile e consueta, non c’è più un giornalismo che indaga sulla politica, ma una politica che si serve del giornalismo. E il passo verso quei regimi, finanche quelli all’ultimo posto in classifica, non è poi così lungo. 

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