La Global Sumud Flotilla, salpata per portare aiuti umanitari a Gaza, è stata colpita due notti fa al largo di Creta da un attacco di droni non rivendicato. Un’azione che non ha provocato vittime, ma ha mostrato la vulnerabilità di un convoglio simbolico e insieme fragile. A bordo di quelle imbarcazioni ci sono cittadini italiani. E quando il ministro della Difesa Guido Crosetto ha difeso la missione, condannando con fermezza l’aggressione e autorizzando la fregata “Fasan” della Marina a garantire protezione e soccorso, il quadro si è spostato: da iniziativa privata di attivisti a questione che tocca direttamente lo Stato.
La flottilla vuole scuotere le coscienze. E, in parte, ci riesce. Ogni mobilitazione per la causa palestinese è utile: richiama l’attenzione dell’opinione pubblica, rompe l’indifferenza, costringe governi e media a guardare verso Gaza. In un tempo in cui il conflitto israelo-palestinese sembra diventato rumore di fondo, la scelta di salpare è un atto politico nel senso più radicale: portare un messaggio oltre le frontiere. Ma qui si apre un paradosso: se la protesta civile riceve appoggio militare, se cittadini italiani in acque internazionali diventano bersagli di attacchi, allora il rischio non è più solo loro. Diventa collettivo, coinvolge un intero Paese, e trasforma un gesto privato in questione di sicurezza nazionale.
Il diritto internazionale è chiaro: la tutela dei cittadini è un dovere dello Stato. Ma questo significa che l’Italia, pur senza volerlo, si espone. Ogni attacco non colpisce solo gli attivisti, ma sfiora la bandiera nazionale che, di fatto, corre in loro difesa. E questo porta con sé conseguenze geopolitiche difficili da controllare. Basta un incidente in acque contese per trovarsi nel cuore di una crisi diplomatica, in un contesto molto fragile. Ed è in quel momento che la solidarietà si trasforma in responsabilità: perché ciò che nasce come testimonianza civile finisce per coinvolgere la Marina militare, la Farnesina e gli equilibri delicatissimi del Mediterraneo.
La flottilla è simbolo di coraggio, certamente. Ma non può sostituirsi a ciò che dovrebbe fare la diplomazia: cercare spiragli, trattare corridoi umanitari, muoversi con l’autorevolezza di chi rappresenta un Paese e non un gruppo, per quanto generoso. La testimonianza individuale è preziosa, ma non può caricarsi da sola il peso di un conflitto globale. È la politica che deve farsi carico delle vie legali e diplomatiche per garantire aiuti e protezione ai civili di Gaza. Altrimenti, il rischio è che la generosità si trasformi in vulnerabilità, e che il gesto nobile diventi un’arma nelle mani di chi vuole alimentare tensioni.
Il confine è sottile: tra il diritto di protesta e la responsabilità politica, tra il gesto nobile e il rischio incalcolabile. Chi parte lo fa per convinzione e senso di giustizia, e chi resta deve valutare gli effetti e i riflessi diplomatic. In certe situazioni, non basta il coraggio, ma servono le competenze. Servono istituzioni in grado di reggere l’urto di uno scontro che si gioca non solo sulle rotte marittime, ma sull’opinione pubblica mondiale.
La flottilla ricorda al mondo che Gaza non è un tema lontano, che il dolore di un popolo non si cancella, che la questione palestinese non può essere relegata a un conflitto dimenticato. Ma ci obbliga anche a domandarci: fino a che punto il coraggio di pochi può chiamare in causa la responsabilità di tutti? La solidarietà non si misura solo con i gesti simbolici. Si misura con la capacità di reggere le conseguenze, con la forza di accompagnare l’azione individuale con strumenti collettivi, con la lucidità di distinguere ciò che può scuotere le coscienze da ciò che rischia di incendiare gli equilibri internazionali.
Il Mediterraneo è da sempre il luogo in cui idealismo e realpolitik si incontrano e si scontrano. La Global Sumud Flotilla è un segnale che non possiamo ignorare. Ma ci ricorda anche che la linea tra il simbolo e la provocazione, tra la testimonianza e il pericolo, è fragile. Sta alla politica, quella vera, farsi carico di non lasciarla spezzare.