L’ultima bravata mediatica di Vittorio Feltri riguarda la mobilità sostenibile, ma in realtà è un becero insulto alla memoria di troppe vite spentesi per colpa della strada. “I ciclisti mi piacciono solo quando vengono investiti”, ha detto Feltri in un evento pubblico a Milano. È il canto del cigno di Vittorio, che fin troppe battute colleziona nel suo curriculum parallelo, accanto a quello di giornalista. Nessuno ormai lo prende più sul serio, sennonché qualche ardito militante di destra, eppure i dati che stanno a monte delle sue parole sì, vanno studiati attentamente.
Nel 2022, secondo Aci – ISTAT, i ciclisti morti in un incidente stradale sono stati 205, sul totale di oltre 3000 morti sulle strade. Nello scorso anno, ironia della sorte, si fa per dire, la regione con più ciclisti morti è stata proprio la Lombardia di Feltri. Per leggere i dati in altre parole, è come se ogni anno scomparisse dalla popolazione l’intero gruppo partecipante del Giro d’Italia. È una strage silenziosa, che due anni fa, oltre ai decessi, ha contato anche oltre 18.000 feriti. Tralasciando il fatto che l’uso della mobilità alternativa e sostenibile è salutare sotto svariati punti di vista (l’utilizzo costante della bicicletta è associato a un rischio inferiore del 26% di malattie cardiache e obesità; per non citare i benefici all’ecosistema della sostituzione di veicoli inquinanti), l’Italia è indietro rispetto ai Paesi del Nord Europa. Il 41% dei cittadini dei Paesi Bassi usa la bici come mezzo di spostamento quotidiano, ad esempio. Ma non è questo il punto: per arrivare a questi numeri serve un percorso lungo di cultura, educazione civica ed ambientale. Il tema reale è che l’Italia non è un Paese per i “piccoli” della strada: pedoni, ciclisti e in generale tutti i non automobilisti. E i governi, per evitare di disciplinare un tema incomprensibilmente divisivo, creano specchietti per le allodole: il metro e mezzo per sorpassare un ciclista, alla prova dei fatti impossibile da verificare e contestare.
Per quanto concerne Feltri, è la parabola discendente di un distinto giornalista, oggi diventato un personaggio televisivo caricaturale. È colui che non va in vacanza, afferma pubblicamente, e odia il mare “per questioni scientifiche”. Si mette in evidenza per esclamazioni dai toni coloriti – una vacanza, anche se a Milano d’estate “perché non c’è nessuno e si sta bene (cit.)”, gli farebbe comodo. La sua comunicazione politica, divisiva ma frutto di competenze acquisite in una lunga carriera, passa in secondo piano rispetto ad affermazioni del tutto fuori contesto e meritevoli di condanna quantomeno morale. A lui non frega nulla di tutto ciò, lo sappiamo; sappia egli, però, che un motivo circa la sua avversione così forte ai ciclisti forse l’abbiamo trovato. Sembrava inspiegabile (che fastidio daranno mai a un anziano signore), ma pensiamo di aver risolto il mistero. Secondo un’interpretazione consolidata negli studi storici del Ventennio, infatti, durante il Fascismo il movimento ciclistico era guardato di traverso. Il regime era totalmente disinteressato al ciclismo, privilegiando altre discipline.
Purtroppo, che i famigliari delle vittime non si aspettino scuse. Vittorio è così, al massimo “precisa”, a volte peggiorando la situazione. Ci rincuora una convinzione: le nuove generazioni sembrano molto attente ai temi ambientali e al fatto che non può esserci un futuro sostenibile se si perpetuano i comportamenti avuti negli ultimi 40 anni. È il cambio dei tempi, che chi è giovane coglie meglio rispetto agli altri. Una provocazione per dire che un pensiero del genere ce lo aspetteremmo da un esponente di qualche schieramento nostalgico, non da un giornalista come lui.
Ma veramente ha detto una cosa del genere ???!!!