“La carenza di libertà di stampa e l’impatto sulle relazioni internazionali”, Barbara Mascitelli analizza i casi di Russia e Turchia

“La carenza di libertà di stampa e l’impatto sulle relazioni internazionali” è il primo libro di Barbara Mascitelli, nata in Abruzzo nel 1993 e laureata in Comunicazione digitale e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza.

Il libro esamina l’importante tema della libertà di stampa, intesa come diritto inalienabile di esprimere il proprio pensiero e di informare, nel modo corretto, i cittadini del mondo.

Nell’opera ci si concentra su due casi molto interessanti, quello della Turchia e della Russia; l’autrice ci accompagna in una analisi storica, politica e culturale che attraversa il ‘900 per arrivare ai giorni attuali.

Buongiorno Barbara e grazie per la disponibilità. Partendo dal titolo del suo volume, come la carenza di libertà di stampa influenza le relazioni internazionali?

Buongiorno, e grazie a lei dell’opportunità di poter parlare del mio libro, che ha come tema la libertà di stampa. Un tema apparentemente banale, in realtà fondamentale, soprattutto nelle relazioni internazionali. In fondo, è grazie al rapporto tra i vari stati – europei e non – che veniamo a conoscenza delle informazioni che loro stessi ritengono importanti. Dunque, la libera informazione ha sia un lato positivo sia un lato negativo: il primo è che tutti noi cittadini del mondo possiamo avere maggiore consapevolezza di ciò che accade nel mondo; invece, il non avere (del tutto) informazioni limita la nostra conoscenza e la capacità di crearci una propria opinione sui fatti che accadono. Ad esempio, sappiamo tutti che nel 2016 in Turchia sono stati incarcerati più di 30 giornalisti e per quale motivo? Oppure, conosciamo tutti la storia della scrittrice Asli Erdoğan? Sappiamo chi è, se il suo cognome è direttamente collegato a quello del presidente turco o è solo una mera coincidenza? Non ne ero a conoscenza neppure io, fino a quando non ho letto di lei ricercando approfonditamente il perché comparisse il suo nome sulle accuse di complotto contro lo Stato turco.   

Nel suo libro analizza, approfonditamente, Russia e Turchia. Iniziamo dalla prima. Il 1989 ha visto la caduta del Muro di Berlino mentre, nel dicembre del 1991, c’è stato il definitivo crollo dell’URSS. Oggi la Russia è più libera rispetto all’esperienza comunista? Com’è cambiato il ruolo del giornalista in questo Stato?

La situazione sociopolitica in Russia non è cambiata molto, anche se, negli anni ’90, Gorbaciov ha tentato di avvicinare il Paese alla democrazia occidentale. Dunque, si passa da un governo totalitarista abituato a “pensare con la testa degli zar” ad una “democrazia gestita” in cui – secondo le parole di Putin – «la stampa libera è come una bella donna, tutti ci provano e sta a lei non concedersi». Ovvero, il giornalista si trova in un contesto non proprio democratico come quello occidentale, ma opera in un sistema semi – autoritario: egli deve informare il popolo russo con la “pravda”, ovvero la verità di Stato, assoluta, non discutibile; non cadere in tentazione della “istina”. Chi l’ha fatto, si è ritrovato un destino come quello di Anna Politkovskaja. Non a caso, il capitolo dedicato a questa sezione l’ho voluto ricordare con una frase del collega Boris Konakov: «Il silenzio non è assenso». Bisogna saper fare la differenza.

Carlo Marsili, ex ambasciatore italiano in Turchia, nel suo libro “La Turchia bussa alla porta”, scrive che una delle ragioni dello scarso spirito critico verso chi occupa posizioni di potere è dovuto ad una forma di rispetto insita in ogni cittadino turco nei confronti dell’autorità. L’altro è invece di natura storica. Possiamo approfondire questo aspetto?

La Turchia non è conosciuta certo per le prese di posizioni nei confronti delle oppressioni del governo. Il popolo turco ha maturato nel corso degli anni, dall’Impero Ottomano ad oggi, un forte timore nel raccontare e ricercare la verità. Il sistema mediatico è stato sottomesso fortemente dall’influenza politica sin dagli anni ’80: la carta stampata non deve essere incisiva sulla massa, ma produrre le cosiddette soft news e cronache rosa. Ad oggi si può affermare che si ha un regime di controllo su tutto ciò che viene divulgato, facilmente attuabile nei confronti della carta stampata, mentre per i social network, come Facebook e Twitter, risulta difficile. Infatti, essi forniscono informazioni di cronaca (hard news) e sono ritenuti molto pericolosi perché mobilitano l’opinione pubblica in proteste come quella di Gezi Park, del 2013, contro le tendenze illiberali del governo turco. La popolazione si è attivata non solo online, creando dei forum di discussione sotto gli hashtag #OccupyGezi, #geziparki, #resistgezi, ma anche offline con rivolte ambientali in Piazza Taksim. Ovviamente, quest’ultime sono state represse dalla polizia e scrittori come Osman Kavala che le hanno incoraggiate sono stati incarcerati. Le rivolte erano state riportate anche sulla CNN Turk, ma l’informazione è stata sostituita da un documentario sui pinguini.

Tutto questo è basato sul concetto di “turchicità”, ovvero l’identità nazionale turca, da difendere contro qualsiasi cosa considerata una minaccia, sia per lo Stato (legge antiterrorismo e legge sulla censura del 1951) sia per la sua integrità.  

Facciamo ora una comparazione. Quali sono le maggiori differenze, nei rapporti con la stampa, tra la Russia di Putin e la Turchia di Erdoğan? Dove invece ha riscontrato similitudini?

Le differenze tra la stampa russa e quella turca non sono tante, anzi si può affermare – anche grazie ai dati forniti dalla classifica dell’Indice della Libertà di stampa – che Russia e Turchia viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. In entrambi gli stati, nonostante siano presenti nelle Costituzioni articoli ben disposti nei confronti della libertà di stampa, si accentua sempre di più una propensione alla censura della parola. Si sente parlare spesso, purtroppo, di condanne a giorni in carcere o a cospicue somme di multe sia per i giornalisti, scrittori e blogger sia per normali cittadini che muovono critiche al governo, insultano le istituzioni anche online o diffondono fake news. A testimonianza di ciò, nel mio libro cito l’esperienza vissuta dalla scrittrice turca Asli Erdoğan raccontata in prima persona nell’opera “Neppure il silenzio è più tuo”.  

Chiudiamo con l’Italia. Come valuta la condizione della stampa nel nostro Paese?

Stando a quanto riportato dalla classifica dell’Indice della Libertà di stampa di Reporters senza frontiere, l’Italia gode ancora del privilegio di non essere considerata come la Turchia, “la più grande prigione al mondo per i giornalisti”. Questo non significa che non ci siano repressioni in Italia, al contrario: molti giornalisti ad oggi vengono minacciati di morte perché affrontano temi riguardanti la mafia, ad esempio; o vengono denigrati dai politici perché vengono attaccati per il loro operato non condiviso da tutti. Ricordiamoci che l’Italia, pur essendo un Paese libero intellettualmente rispetto alla Russia e alla Turchia, si concede ancora ad un forte clientelismo e al riportare i fatti di cronaca con un tocco di satira e di commento, influenzando l’opinione pubblica a pensare o come un esponente di destra o di sinistra o di centro.

Considerando la situazione dei tre Stati presi in esame nel mio saggio, non bisognerebbe dimenticare le parole di Oracio De Verbitsky: «Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia. Tutto il resto è propaganda». Un’affermazione che non dovrebbe essere presa in considerazione, se vogliamo, solo quando si parla di libertà di stampa ma farne tesoro anche nella vita quotidiana. Saremo sempre considerati soggetti scomodi per chi non ama l’opinione altrui rispetto alla propria. L’importante è non essere la massa, ma distinguersi e fare la differenza, anche se a volte il prezzo da pagare è più alto delle proprie aspettative.

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