A colloquio: l’incontro in libreria

È un bel pomeriggio di primavera. A Roma c’è la zona rossa, ma ormai siamo quasi al termine del periodo di restrizione; e poi, non si tratta di certo della zona rossa dello scorso anno. Ma quale lockdown, ma quali balconi: oggi i romani sono in bicicletta o a piedi e si godono la prima domenica calda della stagione.

All’auditorium è stato allestito un centro per le vaccinazioni, e la primula d’ordinanza annuncia la zona d’attesa. L’atmosfera è quella di una riunione di condominio, con tantissimi anziani che chiacchierano amabilmente: non gli sembra vero di poter parlare con qualcuno, di sfuggire alla solitudine protettiva che sperimentano da oltre un anno.

Qualche passante entra in libreria, come faccio io. Costringo il fidanzato a quella che, nei miei piani, è una veloce sosta per acquistare un libro.

Conosco già questa libreria, che mi è stata di grande consolazione lo scorso autunno, quando facevo lo slalom tra una quarantena scolastica e l’altra.

Mi avvicino alla postazione di ricerca e chiedo “L’ora di italiano” di Luca Serianni. Alla postazione c’è un commesso, ma mi è chiaro che ho interrotto una conversazione informale con un altro commesso e con un cliente sulla sessantina. Pancetta incipiente, capelli bianchi e radi, giacca blu curata e camicia a quadri con le iniziali: si vedono tanti tipi così da queste parti. Il quartiere Flaminio è un quartiere di gente “per bene”, qualsiasi cosa voglia dire questa espressione, dove tutti gli anziani in pensione si vestono ogni giorno come se dovessero andare a tenere una conferenza.

Il cliente commenta la mia scelta. Ah sì certo, Serianni, come no. Però, anche lui ha qualche colpa…

A questo punto, l’ho inquadrato come un intellettuale. “Sì certo – rispondo – ha riformato l’esame di terza media, ha collaborato a diversi tavoli col Ministero, ma rimane uno studioso di tutto rispetto”. Ma poi rimane, perché?

“Sa, sono un insegnante” mi dice.

“Ah bene, è un collega.” dico io. Forse non se lo aspettava. Ho quasi trent’anni e posso passare per una docente un po’ più grande se metto i tacchi e le giacche. Però oggi indosso la tuta da ginnastica, le Reebok, un maglione giallo e uno zainetto. Poi c’è la mascherina. No, forse non si aspettava che una ragazzotta tarchiata vestita per una camminata sportiva, con uomo al seguito vestito nello stesso modo, fosse una docente in libera uscita.

“Ah, è insegnante?”

Nei cinque minuti successivi intavoliamo la conversazione tipo di due docenti di lettere che si incontrano, non importa quanto diversi: deploriamo la caduta del tema tradizionale, la fine del congiuntivo e la perdita dei connettivi. Ci informiamo sulle rispettive cattedre: il collega insegna storia e filosofia al liceo, io gli racconto che insegno italiano in una scuola paritaria e che no, non mi accontento mica della follia della scuola, amo il bipolarismo e non me ne vergogno, perché ho liberamente scelto di insegnare sia alle medie che al liceo.

Il collega si lamenta: chiede Galileo e gli studenti attaccano con ‘Galileo nasce…’. Lo capisco. Quasi ci rubiamo le parole di bocca quando descriviamo la reazione tipo di uno studente di fronte a una interrogazione non programmata.

Mi chiede dove mi sono diplomata, che per me è sempre una domanda stranissima. Sono cresciuta in provincia dove non esiste il liceo bene: ce n’è solo uno e deve andar bene per tutti coloro che lo scelgono. Glielo racconto, e gli dico pure che mi sembra poco didattico che esistano delle scuole così differenziate per fama, quasi classiste.

Insomma, chiacchiere. Lui dice che vorrebbe che noi precari avessimo formazione e tirocinio, oltre che un ruolo sicuro; dice che Hegel insegna che noi tutti impariamo dalla pratica per arrivare alla teoria. Io gli spiego che allo Stato il precariato serve, che in legge di bilancio conviene conteggiare meno organico di diritto. .

Quando parliamo di ambiente lavorativo , il professore mi avverte: per insegnare serve tanta collaborazione, ma è un qualità che non si troverà mai nel mondo della scuola perché noi professori a volte siamo dei narcisi irrisolti. Non ha tutti i torti: vuoi  per colpa del vissuto personale, vuoi per la strana decadenza sociale della nostra professione, vuoi perché non ce lo hanno mai davvero chiesto, non siamo sempre un corpo professionale centrato su un obiettivo.

Io ascolto, il professore ascolta, il fidanzato ascolta pure lui. Di solito, si rompe le scatole dopo cinque minuti e la colpa è mia, perché lo so che parlo troppo di questo lavoro. Eppure, questo signore fa venire voglia di ascoltare, di essere suoi studenti. Ha sessantaquattro anni: sarebbe potuto essere un mio professore.

Alla fine, gli chiedo se si sia pentito di aver fatto l’insegnante, ora che è sulla soglia della pensione e che questo lavoro è diventato così difficile.

“No, non mi sono pentito, anche se ci sono arrivato per caso. Non sono stato precario, sono entrato e basta. Prima volevo fare il giornalista, ma poi, quando ho capito che avrei dovuto misurarmi con tante difficoltà, ho incontrato la scuola. Adesso, però, sono cambiate troppe cose, soprattutto negli ultimi vent’anni. Non mi sento più di alcuna utilità, non sento di poter essere di aiuto in questa crisi. Forse voi potrete…”

“Ci proviamo”

“Sono dalla vostra parte.”

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