Aborto: la realtà sociale, la questione morale ed un punto di vista liberale

È molto strano, nel 2019, ritrovarsi ancora a parlare dell’aborto nella società odierna: è strano, non lo nego, perché da quella famosa L. 194/1978, confermata dal referendum del 1981, son trascorsi 41 anni e, dopo quasi mezzo secolo, alcune conquiste sociali dovrebbero darsi per raggiunte, ormai corredo genetico del nostro vissuto.

Le scelte più intime dell’individuo devono essere sempre rispettate, soprattutto quando si verte sulla disposizione del proprio corpo. Sono decisioni da assumere in autonomia e piena responsabilità, tramite una corretta informazione sessuale e riproduttiva e la coscienza che la libera disposizione del corpo è un diritto della persona.

Al contempo, nessuno sano di mente metterebbe in dubbio la sacralità della vita, la necessità che essa sia rispettata e tutelata come diritto principale tra quelli indisponibili dell’individuo.

Veniamo all’oggi: lo scorso anno in Argentina veniva bocciata dal Senato la legge sulla legalizzazione dell’aborto e qualche mese fa è stato negato ad una bambina di 11 anni, stuprata dal compagno della nonna, il diritto di abortire dopo 2 settimane.

Un mese fa, in Alabama, è stata approvata la legge più restrittiva mai elaborata nel mondo occidentale sul tema: aborto vietato sempre, anche in caso di stupro o incesto – con la costrizione della donna ad una violenza prima fisica e poi personale – con detenzione fino a 99 anni per i medici abortisti.

Quale dovrebbe essere l’interrogativo oggi, soprattutto tra chi ha un pensiero liberale? È giusto concedere la libertà di abortire a qualunque condizione? È giusto concederla a determinate condizioni? È giusto non concederla?

La domanda sorge lecita in seguito ad un dibattito recente con chi rivendica una necessità, da parte dello Stato, di vietare l’aborto anche in condizione di stupro, incesto et similia: per loro verrebbe prima il diritto alla vita dell’embrione.

Eccezione ineccepibile, se non fosse che l’embrione, fino alla 8° settimana di gestazione, non è vita, mancando quelle forme facciali, gli arti, la capacità di provare qualsivoglia sensazione: scientificamente, superata l’8° settimana, prende piede la formazione del feto che, da “massa di cellule”, diventa un essere dall’aspetto semiumano.

Appare ovvio, durante questo primo periodo, apportare una tutela totale alla madre, che è vita, portatrice di vita e, prima ancora, è individuo: come tale, è impensabile non riconoscerle un diritto pieno alla disposizione del proprio corpo e alla tutela della propria esistenza.

Il problema deve, quindi, essere ribaltato, soprattutto per chi ha un pensiero liberale da combaciare con una visione della vita più tradizionalista rispetto all’ultraprogressismo imperante: non più vedere l’aborto come una limitazione dei diritti materni o del feto, ma considerarlo in un ottica di casistiche nelle quali può essere consentito e socialmente approvato alla luce delle contrapposte necessità di tutela.

A ciò la risposta, più che precisa, la da la già citata L. 194 del 22.5.1978, nell’affermare che “Lo Stato… tutela la vita umana dal suo inizio… l’interruzione volontaria della gravidanza… non è mezzo per il controllo delle nascite… l’interruzione è possibile quando… la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico”.

Al riguardo, l’intervento della sent. n.35 del 10.2.97 è un monito: nell’ottica del rapporto madre – feto “il bilanciamento tra detti diritti fondamentali, quando siano entrambi esposti a pericolo, si trova nella salvaguardia della vita e della salute della madre, dovendosi peraltro operare in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto”.

Ed è questa la realtà da tenere in esame: un feto è vita in potenza – e come tale meritevole di essere tutelata in potenza – ma una madre, una donna, è essere vivente. Come tale vi è la doverosità della tutela del suo inalienabile diritto alla vita ed alla tutela della stessa.

Una gravidanza non è un capriccio: la donna e l’uomo che intendono dare alla luce una vita devono farlo – e si spera sia sempre così – a ragion veduta, con una progettualità definita e con la serietà e coscienza che porta una scelta irreversibile.

Ma abortire non è mai una libera scelta: è trauma esistenziale, che si ripercuote nella vita di ogni donna che deve porre rimedio a situazioni che vanno ad intaccare il suo corpo e la sua anima.
L’aborto non deve essere motivo di damnatio perché “quella sera non avevo il preservativo”, “volevamo farlo”, come fanno credere che sia la normalità tanti, troppi imbonitori da avanspettacolo prestati alla politica.

Nessuno vuole venir meno al diritto di un embrione a diventare feto e poi individuo.

Ma l’aborto è una misura a tutela dell’integrità e dignità della donna come essere umano, una sua conquista sociale reale che nulla ha a che vedere con lo pseudofemminismo odierno, una scelta di disposizione del proprio corpo che deve essere consapevole e libera, anche se libera non lo sarà mai: dietro la libertà della scelta di abortire si cela la tristezza di una gioia materna interrotta che nessuno, NESSUNO, ha il diritto di sindacare.

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