Agli italiani piace l’involuzione della comunicazione politica

La storia di un declino sociale e professionale che sembra non preoccupare (quasi) nessuno


“Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia“, parola di Pier Paolo Pasolini. Una disamina impossibile da archiviare, perfettamente adattabile ad ogni epoca, nonché punto di riferimento fisso nell’eterno dibattito sul rapporto tra istituzioni e cittadino. Una relazione instabile che viaggia su due binari paralleli, capace di assumere le sembianze di un duello alquanto bizzarro tra l’alta velocità e un treno regionale, disputato quotidianamente lungo un percorso tortuoso, caratterizzato da continui black out scambiati erroneamente per banali trafori. Difetti… di comunicazione, deus ex machina che traina la politica 3.0 verso un mondo nuovo e dinamico.

Un cinguettio, un post, un live, nel nome della condivisione e della viralità. Tempi lontani quella della Prima Repubblica, in cui un linguaggio forbito e fortemente istituzionale creava sì una sorta di barriera lessicale tra homo politicus e popolo, ma al tempo stesso manteneva alto il livello di rispettabilità della classe dirigente, in possesso di doti essenziali quali la competenza, la preparazione e, perché no, l’arguzia.

L’involuzione si registra con l’arrivo degli anni ’90. Nello scenario critico di Tangentopoli il sistema partitico tradizionale si sgretola sotto i colpi dell’inchiesta Mani pulite; l’Italia cambia, i toni si alzano, dentro e fuori il Parlamento. L’avvento di nuovi movimenti politici fa sì che la comunicazione ideologica diventi parte integrante dei media; è in questo preciso momento storico che nasce la politica-pop, abile nel manipolare l’interlocutore attraverso i palinsesti televisivi e nell’insinuarsi tra le pagine di magazines dediti al gossip.

Res publica e pettegolezzi, un mix singolare, figlio legittimo dell’infotainment: una pratica in voga anche in quella che è ormai nota come la Terza Repubblica. Un’era trasgressivamente critica a causa dell’emorragia di informazioni (talvolta false) e della paradossale pochezza di contenuti che “anima” le aule parlamentari, luoghi memorabili malinconicamente rimpiazzati dai social network, nuove sedi prescelte dai leader moderni per dettare la celebre agenda setting.

Nonostante le svariate difficoltà che attanagliano lo Stivale il mondo politico sembra vivere in un mondo tutto suo: una dimensione alternativa lontana anni luce dalle priorità del Paese reale, persuaso da sottili tecniche di propaganda che mirano a connotare il leader di turno come il classico “uomo comune”.

È uno di noi perché fa colazione al bar sotto casa anziché alla buvette di Montecitorio”, “è uno di noi perché non usa le auto blu ma i mezzi pubblici”, “è uno di noi perché ascolta le nostre stesse canzoni”. Sono solo alcuni banali esempi della forza dei messaggi condivisi attraverso i social media, troppo spesso sottovalutata. Così come la crescita del populismo, a cui corrisponde un netto calo della lettura di quotidiani e testi informativi: tv e social network sono diventati i principali mezzi di comunicazione a cui l’utente fa appello. Il costante flusso di informazioni investe chiunque si rapporti con l’universo massmediatico contemporaneo: la smisurata inflazione di news, inoltre, comporta il crollo dell’attenzione da parte dell’internauta/telespettatore, coinvolto inconsciamente in un processo di sintetizzazione della realtà che lo circonda e bersagliato da contenuti affini ai suoi click&like. Questione di filter bubble, un mondo virtuale personalizzato a cui l’utente-elettore pare essersi paradossalmente affezionato.

Un amore viscerale che, bot a parte, è testimoniato dalle interazioni positive sulle pagine social dei principali leader politici. L’e-lettore ipnotizzato dal web si percepisce finalmente come parte attiva dopo anni di stagnazione sociale: un cambio di rotta – segnato anche dalla democrazia diretta – solo apparente, così come la luce in fondo al tunnel per un treno che, carico di regresso e ingenuità, viaggia ogni giorno con un ritardo di tre ore. Tre, come le Repubbliche. Tre, come un voto: quello politico.

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