Diego Cugia: “Oserò, con Jack Folla, la mia vita su un’altra scacchiera dell’universo”

Giornalista, scrittore, speaker radiofonico, Diego Cugia ha appassionato intere generazioni grazie al suo personaggio più famoso, Jack Folla, il DJ condannato a morte negli Stati Uniti, al quale viene concesso di trasmettere su Radio 2 “la musica della sua vita”.

L’ho ascoltato spesso Jack Folla. Alla Radio come in televisione, le sue parole sapevano scuoterti l’anima. Un personaggio meraviglioso che raccontava l’uomo, con le sue paure, le sue debolezze, le sue prigioni interiori. Siamo un po’ tutti condannati a morte, nella nostra Alcatraz quotidiana?

No, siamo condannati a vivere esistenze insoddisfacenti, il vero dramma è questo, la morte è un fatto naturale. Ma questo vivere da zombie no, è il peccato più grande che possiamo commettere: l’indifferenza, l’ostilità verso gli altri e il mondo circostante, l’incoscienza di essere vivi. Io credo che, come Sisifo, dobbiamo rovesciarci sulla schiena il peso del mondo e salire la montagna, passo dopo passo. Non ha importanza che poi la pietra rotolerà giù. Torneremo a valle e ci proveremo ancora. Ma non come “condanna”, come nostra scelta. Portandoci sulla schiena il dolore del mondo ce ne liberiamo. Camus lo espresse in tre parole: “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Ecco, credo che essere felici sia il primo dovere della vita. Non un piacere, ma un’educazione alla gioia. E i maestri di noi stessi, le nostre guide spirituali, siamo noi.

Su Rai 2, nel 2000, viene trasmessa e raccontata la latitanza del tuo celebre personaggio. Ma Jack Folla… ha trovato veramente pace? Sei sicuro non sia ancora in fuga?

Jack Folla non può trovare pace. È l’eterno latitante, l’uomo libero in fuga in avanti che c’è dentro ciascuno di noi. I tedeschi lo definiscono “Der suchende”, colui che cerca, il Cercatore. Se dovessi scrivere il personaggio daccapo, oggi lo farei donna: una DJ condannata a morte. Noi maschietti del terzo millennio siamo un po’ spenti. Sono le ragazze ad avere la lanterna di Diogene in mano, oggi. Sono loro le “Der suchende”, le minatrici che scavano a mani nude alla ricerca delle perle preziose dell’essere.

Ogni anno tanti giovani vanno via dal nostro Paese. Negli ultimi 10 anni 100 mila giovani laureati sono andati all’estero per cercare fortuna. Cosa direbbe Jack a tutti questi latitanti?

Che nella sfortuna sono stati fortunati, persino se non dovessero trovare fortuna. Perché nel verbo “osare” è nascosto un tesoro. Indossare quel verbo, avere il coraggio di viverlo, è la miglior cosa che gli potesse capitare. Raggiungere la meta, il trionfo personale, è relativamente importante. Ma osare se stessi, l’avventura, donarsi al cambiamento pagandone il prezzo, è comunque vincente. La tua domanda, a parte Jack, mi ha ricordato la dedica finale che scrissi per un altro romanzo “Tango alla fine del mondo”, la storia di una ragazzina siciliana di fine 800 e di suo padre, uno di quegli italiani disperati e coraggiosi che emigrarono in Argentina e furono tra i padri del Tango.“Questo romanzo è stato scritto per tutti i giovani, le donne e gli uomini fantastici, clandestini di ieri e di oggi, senza denari in tasca ma con un passaporto invisibile per le dogane del futuro”. Ecco, ai giovani laureati costretti a emigrare oggi, gli augurerei di fabbricarsi questo passaporto invisibile.

Tornerai a raccontare la storia di Jack? Io ci spero.

Sto pensando di pubblicarlo in America e anche nei paesi di lingua spagnola, di far emigrare quel libro, aggiornandolo come se fosse stato scritto ieri. Di tentare l’avventura un’altra volta, di osare con Jack su un’altra scacchiera dell’Universo. E chissà che non ricominci a vivere, questo DJ condannato a morte, da una radio di un altro Paese, visto che nel nostro è stato giustiziato.

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