Dinamiche tossiche nelle università italiane

Secondo statistiche ISTAT e USTAT, dopo anni di trend in positivo, per la prima volta nel 2021 si è registrato un calo del 3% delle immatricolazioni universitarie in Italia.

È certamente un dato che non consola e che può essere letto solo in negativo ma la sua carica allarmante viene attenuata quando si realizza che è figlio di un periodo post pandemico, in cui una grossa fetta di popolazione – italiana e mondiale – ha rimesso in discussione la sua vita, cambiato traiettoria e rinunciato a molto. Se questo fosse il caso, basterebbe qualche intervento mirato e stimolante per riattivare gli animi dei giovani studenti, farli uscire dal torpore mentale degli ultimi due anni e accendere in loro la voglia di studiare, di iscriversi all’università “che tanto ti fa crescere e divertire”.

Ma le cose, sfortunatamente, stanno in un altro modo.

Cosa collega Antonio, studente di Lettere di 25 anni, morto suicida proprio all’università, e Federica, prima italiana a laurearsi in giurisprudenza a soli 21 anni?

Fisicamente, nulla. I due non si conoscevano, abitavano e studiavano in due città diverse e, probabilmente, non si sono mai incontrati; i due eventi non sono conseguentemente collegati come si potrebbe pensare, la morte di Antonio è avvenuta prima della laurea di Federica e il conseguimento del titolo della ragazza non è stato certo causato dalla morte del giovane.

Ciò che collega le due storie e tutte le altre storie simili di laureati record e studenti suicidi è qualcosa di più radicato, profondo e allarmante.

Si tratta di una concezione tossica di università, quell’istituzione di cui l’Italia si fa tanto vanto in quanto paese di cultura, erudizione e tradizione. Non è questo il luogo per criticare i metodi di insegnamento o gli approcci troppo teoretici e poco pratici di molte facoltà: ogni disciplina è sacra e va rispettata e, finché le conoscenze vengono messe al primo posto, non è troppo il caso di preoccuparsi.

C’è però un aspetto sul quale l’università italiana è carente, disattenta e forse disinteressata: la salute mentale, il benessere psico-fisico dei suoi studenti. Insomma, il lato umano.

Per quanto straziante, bisogna ammettere che queste problematiche o accenni di preoccupazione verso l’argomento emergono, la maggior parte delle volte,  in seguito a tragedie come quelle di Antonio. Ma per quanto i dati dimostrino un incremento di disagi mentali e psicologici nei giovani studenti, oltre che un forte tasso suicidario per questi ultimi, le proposte e le azioni concrete sono deboli, limitate, accennate e subito accantonate.

Certo, esistono gli sportelli di ascolto. Ma quanto sono effettivamente efficaci?

È necessario, prima di una eventuale proposta di riforma a favore del benessere mentale dei giovani universitari, capire e identificare bene il problema, ciò che porta a patologie depressive e, nei casi estremi, al rischio suicidario.

La nostra tradizione universitaria si basa su fondamenta antiche, nobili e di grande prestigio, soprattutto per quanto riguarda alcune discipline (come Lettere, Giurisprudenza o Medicina che, casualmente, sonole facoltà con il più alto tasso di suicidi).

Da laureata in Lettere, sono dinamiche che conosco bene: i professori, per la maggior parte anziani e in età pensionabile, non hanno lo statuto di persone, bensì quasi di grandi saggi, figure intoccabili e incontrovertibili, al cui passaggio rimanere in silenzio in segno di rispetto. Discendenti di scrittori famosi, membri delle migliori Accademie d’Italia, autori di bibliografie infinite e conosciute internazionalmente.

Il problema, ovviamente, non è certo la loro statura accademica (anzi, in Italia vantiamo importantissimi letterati e docenti, fatto di cui andare sicuramente fieri).

La questione è un’altra: come si relaziona il giovane studente, insicuro e incerto, appena sbarcato all’università, a queste figure imponenti e accademicamente monumentali?

Se questi docenti, cresciuti in tempi diversi e sostenitori della disciplina più rigida e teoretica, ripongono sulle giovani matricole aspettative antiche e figlie di epoche passate, completamente disinteressate al benessere psicofisico, come si può pensare che la vita universitaria possa essere vissuta con serenità?

Certo, la colpa non è solo dei professori e bisogna ammettere che questo non riguarda neanche l’intero corpo docente; ciò che pesa sui giovani studenti è dato da una visione estesa e condivisa dalla società, per la quale l’obiettivo degli iscritti ai corsi universitari sia quello di laurearsi più velocemente possibile, con una media alta, soddisfacendo le aspettative di insegnanti e genitori. Anche questi ultimi, infatti, sono spesso la causa di malesseri e pressioni, colpa di concezioni vecchie e ormai superate. La loro generazione, post sessantotto, ha vissuto l’università con occhi diversi, come un privilegio e un’opportunità per salire sull’ascensore sociale che, dagli anni ’70, iniziò a muoversi, permettendo anche ai figli di operai di diventare medici. La loro versione dei fatti è frutto di passati e ambizioni diverse, in cui la stabilità mentale veniva da sé e ognuno doveva mantenerla senza aiuti esterni.

In un mondo come quello odierno, coincidente con una società fluida, diversa e densa di problematiche nuove, i problemi psicofisici sono in forte crescita, e – fortunatamente – tenuti più in considerazione.

Il desiderio di chiedere un aiuto psicologico è stato sdoganato, la vergogna attutita.

Tuttavia, questo non basta. Le dinamiche sociali, universitarie e familiari continuano a causare stress psicofisici molto forti nei giovani, che avvertono il bisogno di non poter deludere le aspettative e di laurearsi prima degli altri, per entrare in un mondo lavorativo competitivo e instabile, poco rassicurante.

Se poi a tutto ciò aggiungiamo i molti articoli celebrativi di giovani “record”, laureati in metà del tempo rispetto ai coetanei, già desiderati da aziende e società, il carico opprimente aumenta. Piuttosto che elogiare e innalzare tali esempi, dovremmo chiederci a cosa hanno rinunciato questi casi eccezionali; quando hanno avuto il tempo di ambientarsi, di creare amicizie, di sperimentare la prima bocciatura, di saltare un esame perché poco preparati, magari in seguito ad un periodo più “rilassato”? L’università è davvero solo studiare, sostenere esami col massimo dei voti e laurearsi nel minor tempo possibile? Non è anche importante – se non fondamentale – il percorso di crescita e costruzione dell’identità che nei cortili degli edifici trova il suo apice?

Federica, la giovane laureata di 21 anni, ha detto in un’intervista che per riuscire nell’impresa è stato fondamentale il metodo e l’organizzazione, così che se si imponeva di studiare 100 pagine al giorno, la sera non sarebbe mai andata a dormire senza averle completate. Trovo questa affermazione preoccupante e dannosa. L’obiettivo di un giovane dovrebbe essere studiare per passione, certo, con metodo e diligenza, ma rispettando la sua emotività e i suoi tempi. Il percorso universitario dovrebbe essere qualcosa di umanamente completo, che permetta di trovare il proprio metodo di studio ma anche crescere con gli altri, sviluppare le interazioni sociali, la capacità di lavorare in gruppo. La capacità di fallire, come scriveva Pasolini. Educare i giovani al fallimento è ancora, e soprattutto oggi, fondamentale.

Credendo fortemente nel potenziale umano e solidale dell’uomo, continuo a sperare che un domani i risultati siano raggiunti; ciò comprende una maggiore attenzione al sostegno e al supporto psicologico per i giovani, senza aspettare in un ufficio che si presentino spontaneamente, bensì andandogli incontro, spronandoli e contattandoli ai primi segnali di allarme; questo ovviamente richiederebbe una partecipazione attiva di genitori e insegnanti che, osservando i ragazzi, dovrebbero riuscire a percepire eventuali problematiche e preoccupazioni, facendo sentire la propria presenza e il proprio appoggio.

Ultimo ma non per importanza, evitare la retorica celebrativa e tossica dei “laureati da record”, trascurando per un momento il loro successo per concentrarsi sulle loro mancanze e sull’effetto che i loro risultati possano avere sui coetanei.

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