Expo, o cosa significa fare sistema

Noi non siamo una banca” 

C’è molta confusione generale su cosa rappresenti, economicamente, l’Arabia Saudita, appena uscita vincente dalla partita per Expo2030. In molti, dalle nostre parti, considerano il Paese come un pozzo di soldi senza fine, scialacquatore verso opere pubbliche e innovazioni, senza cultura di fondo. “Quello che la gente non capisce è che non può semplicemente scambiarci per una banca che sperpera denaro”. Questa fu la risposta ricevuta, durante un colloquio personale, da un imprenditore proveniente dall’Arabia Saudita. Dopo la notizia della vittoria di Riyadh per l’organizzazione dell’Expo 2030, quelle parole fanno riflettere. In quella frase c’è la nostra incomprensione, o anche la totalità dei nostri preconcetti, verso un Paese che non conosciamo ma che pretendiamo di etichettare negativamente a livello complessivo solo in virtù di aspetti specifici. Ecco cosa ci frena: il moralismo immanente, la spiccata voglia di emettere sentenze senza voler cambiare noi stessi, l’immobilismo vigliacco di chi non vede la stanza che va a fuoco. 

Anatomia di un sistema-Paese… inesistente 

Il nostro sistema può anche aver conservato i tratti distintivi che rendono i suoi contributi, in termini di produzione e influenza, tuttora qualitativi; ma questo non è da imputare ad una logica di assiduo coordinamento, quanto piuttosto a vari casi sconnessi tra loro formanti vere e proprie singolarità. 

In altre parole ciò che rimane della nostra tradizione legata alla qualità si deve alla singola azienda virtuosa, e che ancora resiste, o alla ricerca accademica condotta tra difficoltà le più varie. Solo per citare due esempi assai inflazionati. 

La verità è che ora non esiste un cosiddetto sistema-Paese capace di rilanciare l’Italia verso il domani. Se proprio qualcosa esiste, può essere un principio di irresponsabilità miope mirante a lasciare che tutto rimanga com’è. È proprio così che muore l’attrattività di una nazione: domandandosi perché scegliere l’ignoto in luogo del già esperito

Avversate gli innovatori

Se c’è un Paese ove è possibile applicare alla lettera il portato della Legge di Murphy, sicuramente è l’Italia. Parliamo infatti di un luogo, di un “sistema”, in cui per fare qualcosa c’è bisogno di molto più tempo di quanto si pensi e in cui per poter iniziare qualcosa bisogna prepararne molte altre. 

Nell’attuale contesto qualunque idea innovativa sarà avversata aprioristicamente. Si noti che parlare di innovazione non significa necessariamente cambiare il passato o interpretare il vecchio come peggiore del nuovo. Con innovazione si deve piuttosto intendere la creazione di soluzioni alternative per risolvere un problema. 

Accanto a questo, è da osservare come una qualsivoglia proposta, oltreché essere avversata sul piano astratto, verrà contrastata anche nel concreto. Questo accade grazie ad una strana coalizione formata da molteplici soggetti, alcuni dei quali agiranno involontariamente ed altri con spontaneo desiderio, che si presenta inspiegabilmente ogni volta che una nuova idea fa la sua apparizione. 

Si tratta di un’insieme di leggi tratte dall’esperienza quotidiana, e che forse troveranno anche riscontri nella ricerca. In ogni caso questo è ciò che succede a chiunque abbia la presunzione di tentare la risoluzione di un problema od il miglioramento costruttivo di una situazione negativa. È una tragedia che ormai permea tutto il bagaglio culturale italiano, e che rischia di diventare una condizione opprimente dal punto di vista sociologico. 

Guardare al domani

Nel mondo esiste una sola Italia, paese innovativo, che diffonde innovazioni in contesti che non sanno replicarle. La domanda è: chi innova l’Italia? Riformulando il famoso paradosso del barbiere, a sua volta derivato dal paradosso di Russell, è possibile accorgersi della situazione paradossale in cui ci troviamo. L’Italia produce innovazione ma non rinnova sé stessa

Nonostante ciò tutti continuano a proseguire come se niente fosse; tutti continuano a fare le stesse cose di sempre. La stessa illusione, colorata di disfattismo rinunciatario, che si perpetua e che finisce per ancorare la nazione ad un limbo di insignificante mediocrità. Prima di ogni riforma, e prima di ogni tipo di intervento, quello che serve è uno stravolgimento sensazionale della cultura sociale italiana del nostro tempo. 

Serve l’Italia di Cavour, che innalza la produttività del porto di Genova perché lo rende fulcro dello sviluppo che comincia via nave e si estende con le ferrovie. Serve l’Italia di Olivetti e di Gardini, che eleva la competizione a sfida di vita pur conservando la necessaria attenzione per il benessere di chi quella competizione contribuisce a sostenerla. Serve l’Italia di Cucinelli, che vede nella qualità un motivo esistenziale irrinunciabile e non solo un fine da raggiungere a fasi alterne. 

Senza esempi virtuosi non vi sarà un metodo da replicare, senza un metodo tutte le risorse e le potenzialità non potranno essere impiegate in maniera armonica. 

Come nella bizzarra scena del film La Haine, il rischio è di non capire che il treno del futuro non si ferma; e dunque morire di freddo insieme a Grumvalski. 

Il Regno saudita, malgrado tutto, ha cominciato da neanche troppo tempo a fare questo; generando una macchina sistemica in grado di mettere a frutto i caratteri positivi a disposizione del paese. Si potrebbe obiettare che il capitale a disposizione è ampio. Agnelli una volta disse che i patrimoni si ottengono mediante accumulazione, speculazione o successione; ma l’elemento indispensabile è la responsabilità. L’Arabia Saudita è una nazione ricca, ma è anche una nazione che sa spendere bene i propri soldi; riuscendo a convogliare tutte le energie per raggiungere obiettivi realmente migliorativi ed impattanti.

Non esiste insomma una vittoria che si costruisce per caso. Esistono visioni che divengono strategie. Una strategia deve inserirsi nelle logiche politiche come una metodologia attraverso la quale promuovere un modello di paese competitivo e attraente. Elaborare una strategia significa sfruttare i punti di forza ed occultare le debolezze. Dall’immagine dall’economia, dalla diplomazia culturale a quella umanitaria, Riyadh ha tanto da insegnare in termini di mondializzazione. Dobbiamo chiederci che cosa vogliamo raccontare domani, se davvero abbiamo intenzione di capire i fallimenti di oggi. Nessuno ci può insegnare a farlo; dobbiamo riscoprirlo noi stessi. E quando ci saremo riusciti forse torneremo a contendere agli altri i grandi traguardi internazionali. Un esempio da seguire? Un sistema vincente: Vision 2030. 

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