Gezi Park, il verde che vuole risplendere

28 mag 2013 – 20 ago 2013: iniziano le proteste a favore del Gezi Park contro la costruzione di un centro commerciale al posto del parco a Istanbul. Tale protesta ha avuto risonanza nazionale dopo che i manifestanti sono stati attaccati dalla polizia e ciò ha amplificato il motivo del dissenso verso istanze politiche più generali, dando infine vita a manifestazioni in tutto il Paese represse violentemente dal governo.

All’origine di tale protesta, però, bisogna considerare lo scenario politico che stava vivendo la Turchia in quegli anni. Dalla sua prima nomina a Presidente della nazione, Erdoğan – appartenente al Partito della Giustizia e dello Sviluppo – ha adottato quasi subito delle misure restrittive nei confronti della popolazione e delle altre classi politiche. Come è noto, il suo partito è conosciuto come quello molto legato all’islam e ad una tradizione molto più orientale che occidentale. Il suo obiettivo è sempre stato quello di riportare la Turchia alla gloria dell’Impero Ottomano, non considerando che quei tempi sono passati e le esigenze sono cambiate.

Ad oggi la nazione adotta misure più occidentali che orientali, ed è sempre in prima linea nelle manifestazioni contro restrizioni di impronta araba. Perciò, nel 2011 Erdoğan ha iniziato a imporre restrizioni alle libertà di parola e di stampa, sui contenuti televisivi, all’uso di internet, ha imposto il divieto di consumo di alcol, quello di aborto, e di riunirsi liberamente. È stato reintrodotto il reato di blasfemia e la possibilità per le donne di portare il velo islamico nelle università e nei luoghi pubblici (prima vietato). Nel 2012 è stata approvata una riforma nei programmi d’istruzione nelle scuole pubbliche primarie e superiori al fine di riportare, affianco ai principi kemalisti, anche quelli islamici.

Novità del 2013 è stata quella di cementificare il parco Gezi per favorire la costruzione di un’accademia militare in ricordo dei grandi di Istanbul. Dunque, distruggere l’immenso verde curato, visto come momento di ristoro ma di incontri e relax tra la popolazione di ogni età e genere e razza, a favore di una ricostruzione in stile ottomano della Caserma Militare di Taksim, demolita nel 1940. Il piano terra del nuovo edificio ricostruito avrebbe dovuto ospitare un centro commerciale, i piani superiori degli appartamenti di lusso.

Alla protesta parteciparono dapprima gli ambientalisti, poi fu estesa a tutti attraverso la grande potenza della comunicazione anche virtuale, con il social Twitter. Gli attivisti avevano considerato il social un “forum di discussione” (Zeynep Tufekci), divulgando immagini delle azioni che si svolgevano in quel luogo. Dunque, è cresciuto come movimento in sordina per poi diventare uno “slacktivism”, cioè una causa politica – sociale sostenuta mediante i social media o petizioni online, consapevoli del fatto che poi sarebbero diventati virali ed anche internazionali.

A sostegno di essa si sono aggiunti anche scrittori, giornalisti, universitari da tutto il mondo; ma la pena non è diversa per nessuno di loro, anzi peggiore per alcuni. Da una protesta pacifica si è trasformata in una protesta fatta di violenza e assalti da parte delle forze dell’ordine. Hanno usato lacrimogeni, gas nocivi per tentare di bloccare le proteste. Tutto questo, documentato da immagini su Twitter sotto l’hashtag #occupygezi, #geziparki, #resistgezi, ha comportato un enorme dissenso nei confronti del governo non solo nella nazione ma anche oltre i confini nazionali, con manifestazioni contro Erdoğan in paesi di tutto il mondo e la critica della comunità internazionale espressa anche per vie ufficiali, come nel caso dell’Unione europea, dell’ONU e degli Stati Uniti.

Ovviamente, Erdoğan ha provveduto a far rimuovere tutto dai social ma anche dalla tv nazionale, trasmettendo un documentario sui pinguini. Un’azione fatta di proposito e volontariamente per distogliere l’attenzione del suo popolo da queste rivolte di impronta decisamente occidentali, cosa spiacevole per un popolo che deve essere riportato pian piano sull’impronta orientale. Insomma, un vero e proprio rimodernamento (se così può essere chiamato!) della nazione che, con le reggenze precedenti, aveva visto di buon occhio l’avvicinamento all’Occidente – anche in previsione di una futura e speranzosa entrata nell’UE.

Uno schiaffo alla democrazia e alla Repubblica è la notizia dei numerosi arresti durante queste rivolte, e le copiose condanne post rivoluzione nei confronti di molti giornalisti, scrittori e letterari. Tra questi ricordiamo Osman Kavala1, tutt’oggi ancora in prigione, condannato alla reclusione con l’accusa di aver attentato all’ordine costituzionale della Turchia. Sì, perché chiunque protesti per argomenti non corretti secondo il governo è accusato di terrorismo e di cospirazione!

Il presidente lo incolpa di essere responsabile delle proteste del Gezi Park, a causa delle critiche mosse contro di lui e del suo governo, insinuando che abbia legami con filoni terroristici e di aver trasferito fondi significativi all’estero. L’incriminazione porta ad una richiesta di ergastolo per lui ed altre 15 persone – tra cui Can Dündar, direttore del giornale repubblicano Cumhuriyet e già in esilio in Germania, gli attori Memet Ali Alabora e Pinar Alabora e l’avvocato Can Atalay – con l’accusa di manipolare la mente degli individui nascondendosi dietro le proteste per giungere a rovesciare il governo con la violenza. A queste accuse si ribellano in molti, sia nella nazione sia in Europa, e le richieste di scarcerazione degli imputati non diminuiscono. Anzi, continuano per anni: nel giugno 2019 Can Atalay controbatte alle accuse della procura. «Gezi è contro l’imperialismo. Non può essere spiegato da nessun trucco o cospirazione straniera … è la volontà e la determinazione del popolo nel prendere nelle loro mani il loro destino. Gezi è la possibilità che la Turchia possa emergere dall’oscurità del Medio Oriente. Gezi è la speranza di questa nazione per ciò che riguarda l’uguaglianza, libertà e giustizia».

Dunque, la protesta è stata la prima grande espressione di critica all’autoritarismo di Erdoğan seguita dal colpo di stato nel 2016. Si tratta di un processo che dura da anni e puntualmente mette in imbarazzo il caro presidente per le circostanze politiche in cui si svolge. Ormai da un anno alla guida di Istanbul c’è il partito di opposizione, il Chp capitanato dalla figura di Ekrem Imamoğlu il quale con la sua squadra ha presentato progetti di riqualificazione della suddetta area: campi da gioco per bambini per migliorare la loro crescita nelle comunità urbane svantaggiate. Perciò, egli dà il proprio sostegno agli imputati non temendo le risposte del presidente a livello politico, tra cui il fatto che stia pensando a varie norme che limitino i poteri dei sindaci di tutto il paese. Una delle tante che risale all’anno scorso è l’aver tolto dalle prerogative dei sindaci la nomina dei vertici delle imprese municipalizzate, per trasferirla ai consigli locali ancora guidati da esponenti dell’Akp.

1 “La carenza di libertà di stampa e l’impatto sulle relazioni internazionali. Il caso della Russia e della Turchia.”, cap. terzo “Il ruolo della stampa e dei mezzi di comunicazione”, Barbara Mascitelli, Aracne Editrice, Roma, gennaio 2020.

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