Gianni Schicchi di Puccini e L’heure espagnole di Ravel uniti in dittico all’Opera di Roma

È una scelta che risulta inconsueta, quella di scomporre il celebre trittico Pucciniano associando l’opera più celebre e amata – Gianni Schicchi – ad un altro atto unico sconosciuto al grande pubblico – l’Heure espagnole di Ravel. Una scelta coraggiosa e innovativa, che fa parte di un progetto triennale (“Il Trittico ricomposto”, volto ad esaltare la modernità di Giacomo Puccini) in cui lo spettacolo a cui abbiamo assistito il 16 febbraio rappresenta il tassello centrale.

Le due opere, all’apparenza così diverse, sono unite dal cardine tematico della disgregazione familiare, tanto più profonda quanto più è tacitamente nascosta da un’ipocrisia di facciata.

Tale filo rosso è stato intelligentemente messo in risalto dal regista tedesco di origini turche Ersan Mondtag, che ha il grande merito di aver creato una regia coerente alla drammaturgia musicale di entrambe le opere, unite da un comun denominatore scenico: una monumentale scalinata che culmina in una testa d’orco in pietra che cita la scultura del Parco dei Mostri di Bomarzo. Nel caso di Gianni Schicchi l’elemento architettonico mostruoso- grottesco, unito alla cupezza decadente della casa in rovina, serve a rievocare un’atmosfera da inferno dantesco: il librettista Giovacchino Forzano trae ispirazione da un episodio del XXX canto dell’Inferno di Dante, che viene infatti evocato dal regista attraverso la scelta di far vestire con l’iconico abito e copricapo rosso – sormontato da una corona d’alloro – prima Buoso Donati e poi lo stesso Gianni Schicchi, che indossa i panni dell’aristocratico fiorentino per mettere in atto la celebre truffa del testamento.

Il resto dei costumi, ideati da Johanna Stenzel, si distinguono per i tessuti e i modelli carnevaleschi, che restituiscono efficacemente a livello visivo il tema del travestimento, del voltafaccia e della falsità che permea i rapporti tra i parenti, uniti e al contempo irrimediabilmente separati da un interesse economico così estremo da renderli grottesche caricature di se stessi. L’unico personaggio ad indossare un costume dalla foggia e dal colore neutro è quello di Lauretta: la fanciulla rappresenta la purezza della gioventù che si nutre solo di sentimenti disinteressati come l’amore. Non è un caso che Lauretta sia la sola a non essere al corrente del piano di Gianno Schicchi: il padre, infatti, la manda via con un pretesto, perché non vuole che la giovane prenda parte al macabro carnevale che si sta accingendo a inscenare, prendendo il posto di Buoso Donati sul letto di morte.

Nel cast, contraddistinto da un grande affiatamento musicale e attoriale, spicca l’eccellente prova del baritono Carlo Lepore che tratteggia, grazie ad un sapiente equilibrio tra la voce generosa e l’esperto gesto teatrale, un Gianni Schicchi di incisiva credibilità. Si distingue inoltre per potenza espressiva il Simone di Nicola Ulivieri, mentre il Rinuccio del tenore di Giovanni Sala e la Lauretta del soprano sudafricano Vuvu Mpofu, sebbene dotati di brillante morbidezza vocale, in alcuni momenti non riescono a passare la straripante sonorità dell’orchestra, diretta dal volitivo Michele Mariotti.

Dopo l’intervallo, il sipario si apre su l’Heure espagnole di Ravel: a livello scenico rimane il perno architettonico della scalinata e della statua bomarziana, al di sopra del quale scorrono i video post-apocalittici di Luis August Krawen, mentre al di sotto viene ricostruita la bottega dell’orologiaio Torquemada. Anche in quest’opera dunque la regia è caratterizzata dall’immediatezza visiva: la scena è divisa a metà fra l’atmosfera distopicamente proiettata in un futuro di desertificazione e oggetti volanti, e un passato ricostruito in modo minuziosamente rassicurante attraverso il mobilio del XVIII secolo, in cui un ruolo fondamentale svolgono le pendole fabbricate dell’orologiaio.

Queste diventano infatti i contenitori in cui gli amanti di Concepciòn, moglie affascinante e insoddisfatta, vengono trasportati su e giù – dal piano terra alla camera da letto della donna – grazie alle possenti braccia di un aitante mulattiere. E, alla fine, grazie alla sua prestanza fisica, sarà proprio lui ad avere la meglio sugli altri due rivali, che non fanno che coprirsi di ridicolo.

L’intera opera si regge dunque sulla presenza scenica e di spirito dei cinque personaggi che devono essere in grado di sostenere una storia concretamente allusiva e ricca giochi di parole, risultando divertenti senza scadere nella volgarità. Il cast in questione, nel complesso, risulta riuscire nell’intento.

Il marito-orologiaio pluritradito è il tenore Ya-Chung Huang (Torquemada), dotato di notevole prestanza vocale. Il mezzosoprano francese Karine Deshayes, nella parte della moglie Concepciòn, svetta per spigliatezza nella recitazione e tornita solidità della voce. Per interpretare i due amanti – l’inconcludente poeta Gonzalve e il banchiere Don Iñigo Gomez, che a causa della mole rimane comicamente incastrato in una delle pendole della bottega – ritornano rispettivamente in scena il tenore Giovanni Sala e il basso-baritono Nicola Ulivieri, ben calati nei rispettivi caratteri, il primo sfoggiando una smaltata imitazione del canto di coloratura, il secondo dando fiato alla pomposità stilistica del personaggio. Pienamente prestante, tanto nella prova fisica quanto in quella canora, è il Ramiro del baritono Markus Werba.

Un plauso finale va all’orchestra, che affronta con successo una prova ardua nel rendere la varietà sonora proposta dalla partitura, che si concretizza in suoni onomatopeici, cambi ritmici e stilistici che rendono a livello musicale uno scorrere del tempo che ha scandito l’intero dittico, dall’orologio fermo di Palazzo Donati a Firenze alle pendole ticchettanti della bottega di Torquemada.

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