Gli Stati del generale Conte

Da sabato scorso, a Villa Pamphili si riuniscono gli Stati Generali, ovvero un’assemblea straordinaria convocata dal premier Conte per discutere su come far ripartire l’Italia assieme a imprenditori, politici, economisti e alte cariche istituzionali. 

Già dal nome, il consesso voluto dal Presidente del Consiglio richiama un’eco poco rassicurante: gli Stati Generali che precederono la rivoluzione francese. Al tempo i cittadini chiedevano un re, una legge e un ruolo d’imposta, ovvero un governo stabile, una legge giusta e una fiscalità delegata per quanto possibile. Inoltre, desideravano uscire da secoli di monarchia e da un periodo di assolutismo che aveva lasciato scarsissimo spazio al volere popolare. Le lamentele dei cittadini furono raccolte nei cosiddetti cahiers de doléances, uno strumento interessante all’epoca, che attualmente risulterebbe piuttosto antiquato. A tale proposito, nell’insieme, oggigiorno la ripresa dell’espressione “Stati Generali” risulta di per sé un po’ datata, oltreché fuori luogo (a meno che qualcuno auspichi, perfino in Italia, una rivolta tanto sanguinosa quanto quella del 1789). 

Al di là della memoria storica, che Conte non sembra aver considerato appieno, all’adunanza romana hanno partecipato anche Ursula von Der Leyen e Christine Lagarde, la quale ha affermato che “se si agisce, la crisi può generare una trasformazione positiva”, insensibile al fatto che difronte a una pandemia senza precedenti dai primi del Novecento l’ottimismo va bene, ma senza eccedere. Le “big” dell’Ue sono convenute per spiegare, in sostanza, come spendere i soldi oggetto del loro prestito. Soldi, peraltro, anche italiani. Emerge un senso di impotenza della politica italiana che non solo spaventa, ma lascia tanti dubbi sulla classe dirigente di oggi e domani. 

Tracciati i contorni degli Stati Generali, è bene considerare una strategia più astuta messa in atto dal premier, rispetto al mero programma dell’assemblea, il cui senso sfugge ai più. Infatti, Villa Pamphili potrebbe essere il teatro di una definitiva presa della scena di Giuseppe Conte, nelle vesti di homo novus (in verità già al secondo mandato) della scena italiana. A onor del vero, il premier ha invitato anche le opposizioni, che però hanno disertato, ingannate dall’orgoglio e incuranti di aver lasciato via libera alle mosse del premier. Perché non andare, stanarlo e porre delle condizioni del tipo “noi ci stiamo solo se da oggi si agisce così”? La politica si fa in Parlamento, è vero, ma quando il gioco si fa duro, bisogna rafforzarsi. Alcuni sondaggi sostengono che Conte, in termini di gradimento personale, oscilli dal 14 al 17% e se fosse a capo del M5s la percentuale di voti al partito aumenterebbe dal 20 al 30% (Ipsos). Tuttavia, è d’uopo fare attenzione, perché anche l’ex presidente Mario Monti godeva di sondaggi – personali – sì favorevoli, poi è finito male politicamente. 

Perciò occhio, Conte, poiché è difficile salire, mentre è assai più facile scendere. Se egli si fosse imposto, anni fa, come un uomo fresco della politica, avesse messo da parte l’arrivismo e avesse imposto la sua moderazione (dote rara considerati i tempi) ai partiti di centro, forse la storia politica italiana avrebbe preso un altro corso. La realtà, tuttavia, gli ha dato torto. E l’assemblea in corso potrebbe decretare la caduta del generale Giuseppe dal cavallo, già ferito, della cosa pubblica.

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