Il valore di una vita

È bastata una notte per spegnere una vita. Accade spesso, in verità, e la cronaca restituisce tristezza che poi, poco dopo, scompare. E tutto torna nell’ordinarietà dei giorni. Stavolta, però, ha perso la vita un neonato, Joseph, guineano che è scivolato in mare a causa di un naufragio in acque libiche. Vane le grida della giovane madre “I lose my baby”, dopo poco si era già spento. 

Lui non ce l’ha fatta, mentre a Lampedusa proseguono gli sbarchi, senza sosta. A Cala Madonna è arrivata un’imbarcazione con a bordo 70 persone, mentre l’altro ieri 193 immigrati erano approdati sull’isola. Joseph era a bordo della Ong Open Arms, che ha condotto gli altri a terra. L’hotspot è sovraffollato, oltre 700 gli ospiti arrivati nel corso delle settimane. 

Tra le centinaia di traghettamenti, non pochi finiscono in acqua, talvolta per maltempo, altre volte per volontà dei trafficanti. Così è doveroso chiedersi quale sia il valore della vita di un bambino guineano di sei mesi, se egli abbia diritto a una crescita, a una famiglia, a un’istruzione, a una casa. Se possa, in sostanza, vivere come uno dei nostri figli, nel rispetto delle differenze culturali. Il discorso, benché sia difficile, dovrebbe prescindere dalla politica, anche se è poi la politica che disciplina l’ordine sociale. Si tratta di umanità, e religiosità, per chi crede. Il valore di una vita si misura in base alla qualità della stessa o è un parametro che sta a monte rispetto alle valutazioni umane? Se vale la prima ipotesi, tutto è relativismo: migranti, fuggitivi, deportati, uomini e donne che scappano (anche da Paesi occidentali), per loro non c’è valore perché qualcuno, sua sponte, decide che sia così; se vale la seconda, invece, il discorso cambia. Diventa più complesso, perché le valutazioni umane servono, purtroppo sovente, a semplificare il problema. 

Indro Montanelli, uomo di cultura eppure non paladino del progressismo alla contemporanea, ciononostante affermava che “siamo tutti tolleranti e civili, noi italiani, nei confronti di tutti i diversi. Neri, rossi, gialli. Specie quando si trovano lontano, a distanza telescopica da noi”. E centrava appieno il problema: tolleranza e civiltà verbale, non fattuale. Ovvero, il sommo vizio degli italiani, predicare bene ma razzolare male. È facile, nonché lodevole, parlare con sentimento di fraternità verso gli altri, tuttavia, alla prova dei fatti, non sempre le promesse si dimostrano coerenti. I politici, soprattutto oggigiorno, in ciò sono maestri. 

Pertanto, ognuno si commuove di fronte a tale genere di messaggi. Soprattutto quando il soggetto è un bambino, le lacrime abbondano e, parallelamente, la notizia diventa più virale. Tuttavia, dietro alla commozione mediatica, dev’esservi umanità vissuta: fintantoché ciascuno apprende il fatto, si fa coinvolgere da esso e in seguito lo dimentica, nulla cambierà. È parimenti vero che nessuno, da solo, può cambiare il destino del mare, dietro al quale c’è criminalità organizzata, mancanza di strategie geopolitiche e di accordi, volontà di fuggire costi quel che costi. Eppure, se tutti non obliassero quanto accade quotidianamente, il valore di una vita sarebbe diverso. Nessuna esistenza peserebbe più di altre, ma, almeno, la memoria restituirebbe umanità e preghiera a una tragedia che si consuma ogni giorno, in silenzio, verso vite senza valore, contro il filo spinato che divide due mondi. 

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