Il XXVI canto dell’inferno di Dante e la vicenda del sottomarino Titan: precursori di una storia ciclica

Da giorni ormai la notizia del sottomarino Titan che implode nell’oceano alla disperata ricerca del relitto del Titanic occupa tutte le prime pagine delle testate di informazione. 

A fare scandalo sono soprattutto il cospicuo costo del ticket che per cinque degli uomini più potenti del globo è valso come biglietto fatale, assieme a tutte le mobilitazioni che sono state attivate dalle forze di sicurezza nazionali ed internazionali. 

Una programmazione scellerata della compagnia Ocean Gate, che per 250.000 euro permetteva di salire a bordo di un sottomarino e calarsi nell’atlantico per vedere da vicino il relitto del Titanic, che nel lontano 1912 affondò dopo l’urto con un iceberg.

L’equipaggio contava, tra gli altri, l’uomo d’affari pakistano Shahzada Dawood, uno dei manager più ricchi del suo Paese, con il figlio Suleman, 19 anni appena. Affiancati dall’esploratore francese Paul-Henry Nargeolet, 73 anni, soprannominato “Mister Titanic”. 

Non mancava poi la personalità britannica di Hamish Harding, amministratore delegato di una società che commercia jet privati. Capitanava la spedizione il CEO di Ocean Gate Stockton Rush.

Come da cronaca, l’esito dell’avventura non è stato lieto. Dopo giorni di apprensione per la scomparsa del segnale radio del sottomarino, e per la paura che si esaurisse l’ossigeno e le ore di autonomia del batiscafo, un comunicato stampa congiunto della guardia costiera canadese e della società Ocean Gate afferma che il fatal viaggio è terminato poche ore dopo l’immersione quando una fuga di pressione ha determinato un’istantanea implosione interna decretando la fine della compagine. 

Questa tragedia ha scatenato orde di opinioni contrastanti, lasciando libero spazio a tutti gli spunti di pensiero che un avvenimento del genere lascia. 

È interessante comparare la vicenda con quella narrata da Dante Alighieri nel XXVI canto dell’inferno della Divina Commedia.

Il sommo poeta narra nella cantica dell’ottavo cerchio infernale l’incontro con i consiglieri in frode, coloro quindi che con le loro parole sono riusciti a tessere inganni nefasti, e che da Dio vengono puniti ardendo in eterno in una continua fiamma, che brucia come l’incendio che essi stessi provocarono nell’anima di coloro che, fidandosi, furono metaforicamente condotti al patibolo.

Nella narrazione Ulisse ricostruisce tutte le tappe del suo ultimo viaggio e del motivo per cui si è ritrovato all’inferno. Una volta infatti fuggito dalla prigionia della Maga Circe a Ulisse non bastano i richiami degli affetti per tornare a casa e placare la sua sete di conoscenza, così raduna un equipaggio di fedeli amici e salpa per le coste del Mediterraneo fino ad arrivare allo Stretto di Gibilterra.

I prodi uomini di Ulisse poterono ammirare le Colonne d’Ercole, che secondo la mitologia del tempo erano un confine invalicabile affisso da Dio che segnava il limite delle terre esplorabili.

In quell’istante prevalse in Ulisse la fame di conoscenza e di virtù che aveva contraddistinto la sua vita e con la voce tremante intonò un discorso solenne ai suoi fedeli naviganti per convincerli a superare anche la volontà divina.

Gli uomini, spinti da fraterna volontà, superarono con il vascello il confine spingendosi nell’atlantico speranzosi di attraccare verso nuovi lidi.

Ulisse racconta che superato lo stretto videro solo una grande montagna che si mostrava di fronte a loro, che pareva infinita e che rappresentava il purgatorio. 

Dopo questa visione una forte tempesta colpì la barca, provocata dall’ira di Dio che volle punire Ulisse che con la sua arte oratoria aveva condotto i marinai a spingersi oltre l’invalicabile confine delle terre concesse dal Divino. 

Il Vascello fu così inghiottito dalla forza del mare e trascinato sul fondo dell’oceano Atlantico dove ad attenderlo c’era l’inferno e le sue pene eterne per chi, a causa della forzosa ricerca di tutte le virtù, aveva anteposto la volontà di scoprire al limite concesso agli uomini.

Stockton Rush come capitano del Titan ed Ulisse come condottiero del vascello che sfidò Dio ed il mare non hanno quindi storie ed epiloghi così differenti. 

Entrambi, per la forte volontà di conoscere, si sono spinti oltre il possibile ed hanno fatto leva sulle loro affermate abilità per giungere dove nessuno era mai giunto. 

È quindi lecito pensare che il triste destino a cui il sottomarino nell’ultima settimana è andato incontro non sia altro che un’ennesima dimostrazione della ciclicità della storia e di come le risposte a questi eterni conflitti siano sempre state ricercate, persino dal sommo poeta.

Questo non ci è dato sapere, ma quel che è certo è che ancora oggi ci interroghiamo su quanto la sete di conoscenza possa essere o meno anteposta alle possibilità umane.

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