In Sudan le mutilazioni genitali femminili sono reato: un traguardo storico

Da pochi giorni in Sudan le mutilazioni genitali femminili sono diventate ufficialmente reato. La pratica, in uso in circa 30 Paesi dell’Africa (in Somalia il 98% delle donne l’ha subita) e alcune regioni del Medio Oriente nonché in America Latina, è stata vietata dal governo di transizione, dopo la destituzione del dittatore Omar Hassan al-Bashir che comandava da trent’anni. La nuova legge prevede una pena di tre anni di carcere e una multa.

Si tratta di un traguardo storico per tutto il continente: già nel 2003 l’Unione africana aveva adottato il “protocollo di Maputo” per promuovere i diritti delle donne e far cessare le mutilazioni genitali femminili. 25 Paesi africani lo avevano sottoscritto nel 2008 e 18 di essi avevano definitivamente messo al bando la pratica nel 2013. È una rottura con un passato tragico, durante il quale in Sudan circa il 90% della popolazione femminile tra i 15 e i 49 anni ha subito mutilazioni di tal genere, nella misura più invasiva (dati ONU). Infatti, è opportuno rilevare che la maggioranza delle donne sudanesi non solo è vittima della pratica, ma la subisce anche nella forma estrema della “circoncisione di tipo III” (OMS), nota altrimenti come reinfibulaizone. L’intervento provoca spesso infezioni e compromette in modo grave la salute psichica delle bambine e delle donne che lo ricevono; ad esempio, in Egitto la percentuale della popolazione femminile che è sottoposta a mutilazione è altrettanto alta e riguarda soprattutto l’età infantile, prima dei 12 anni. Così, molto spesso già in età giovanissima le bambine subiscono una mutilazione.

Salma Ismail, portavoce sudanese dell’UNICEF, ha affermato: “La legge aiuterà a proteggere le ragazze da questa pratica barbara e consentirà a loro di vivere con dignità”.

Tuttavia, una sola legge non sarà sufficiente a porre fine alla pratica. In tanti Paesi la mutilazione dei genitali femminili ha valenze culturali e religiose, sostenuta dagli uomini delle tribù locali che la considerano un pilastro della tradizione e del matrimonio. Inoltre, la modifica del codice penale è stata approvata in un periodo in cui in Sudan sono in vigore le restrizioni a causa dell’epidemia da Covid-19, perciò non è il tempo più favorevole per una diffusione rapida della notizia. Il ministro degli affari religiosi, Nasr al-Din Mufreh, ovvero colui che aveva sostenuto che la mutilazione non trovava giustificazione nell’Islam, ha dichiarato di voler eliminare la pratica dal Sudan entro il 2030. È difficile ipotizzare una completa abolizione nell’arco di dieci anni in un Paese che per trent’anni ha subito una dittatura e oggi è governato da un esecutivo di transizione, la quale terminerà nel 2022. E poi? Si indiranno elezioni democratiche? La legge, per la quale oggi meritatamente si festeggia, sarà conservata?

Sono domande a cui è difficile rispondere, soprattutto se il territorio su cui modellare la profezia è uno Stato dell’Africa Centrale che, come tutti gli altri, sta affrontato oggigiorno la pandemia. E la fronteggia con gli strumenti dell’Africa, non dell’Occidente. A prescindere dal futuro, comunque, è stato fatto un passo in avanti nel rispetto dei diritti umani. 

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