Israele – Gaza, legittima difesa o punizione collettiva?

Il 7 ottobre 2023 il mondo ha assistito a una delle giornate più buie del conflitto israelo-palestinese. Il massacro compiuto da Hamas, con atti brutali e disumani, ha riportato l’orrore nel cuore di Israele e sconvolto la coscienza collettiva. Un attacco spietato, ignobile, che merita una condanna senza appello. Eppure, proprio quell’orrore è diventato il grimaldello attraverso cui Benjamin Netanyahu ha spalancato le porte a un’aggressione di proporzioni immani, travolgendo con la forza militare una popolazione già stremata, intrappolata nella gabbia soffocante della Striscia di Gaza.

La legittima difesa è un principio fondamentale, riconosciuto dal diritto internazionale e dalla morale comune. Ma non è una formula magica, né una carta bianca. Si fonda su un equilibrio fragile tra necessità e proporzionalità, tra offesa subita e risposta messa in atto. Quando questo equilibrio si spezza, quando la difesa si trasforma in vendetta, quando la rappresaglia cancella ogni distinzione tra combattenti e civili, allora si entra in un’altra dimensione: quella del crimine.

Da mesi, la “difesa” israeliana ha assunto il volto della devastazione. Gaza è diventata un campo di rovine, un non-luogo in cui la sopravvivenza è una sfida quotidiana e la morte una costante. Migliaia di bambini, donne, anziani, persone inermi, sono rimasti uccisi sotto i bombardamenti o schiacciati dal crollo delle infrastrutture. Gli ospedali non funzionano, l’acqua scarseggia, l’elettricità è un ricordo lontano. In questo scenario apocalittico, non è solo la Striscia ad essere spogliata di ogni dignità: è l’intera umanità a uscirne umiliata.

È doveroso ricordarlo: Hamas è un’organizzazione terroristica, che fa della violenza cieca il suo strumento politico e della distruzione dello Stato di Israele la sua ideologia fondante. Ma la presenza del terrore non giustifica il terrore. Non può esserci alibi, né giuridico né etico, per l’uccisione indiscriminata di civili. Non si combatte il fondamentalismo infliggendo sofferenza alla popolazione che quel fondamentalismo dovrebbe rappresentare. Così si alimenta solo l’odio, si prepara il terreno per le prossime vendette, si legittimano i radicalismi.

Criticare Israele non significa essere nemici di Israele. Significa pretendere da una democrazia, che rivendica per sé valori di civiltà, progresso e giustizia, comportamenti coerenti con quei principi. E proprio Israele, che porta sulle proprie spalle il peso di una delle più atroci tragedie della storia dell’umanità, ovvero la Shoah, il genocidio sistematico di sei milioni di ebrei per mano del nazismo, dovrebbe essere il primo a ricordare cosa accade quando l’odio diventa struttura, quando la violenza diventa sistema, quando si smette di distinguere tra colpevoli e innocenti. Dalla memoria della propria sofferenza dovrebbe nascere la capacità di riconoscere e fermare quella altrui. Chi ha conosciuto l’abisso della disumanizzazione non deve riprodurla. È una responsabilità storica, morale, universale.

La comunità internazionale, nel frattempo, osserva. Inerte, silenziosa, a tratti connivente. Le risoluzioni dell’ONU si sbriciolano contro il muro della realpolitik. Le grandi potenze oscillano tra la retorica della pace e il sostegno militare. La diplomazia è diventata un optional, l’equidistanza una posa ipocrita. E chi paga il prezzo di questa paralisi globale? Sempre gli stessi: i più deboli, i senza voce, gli innocenti.

Perché se l’orrore del 7 ottobre ha segnato un punto di non ritorno, l’orrore che continua ogni giorno a Gaza rischia di cancellare per sempre la possibilità di un futuro diverso. E il mondo, se davvero vuole meritare quel nome, non può più restare a guardare.

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