La lotta delle tigri asiatiche: intervista al prof. Giuseppe Anzera

Il cuore geopolitico del mondo si fa sempre più a Oriente, nel continente asiatico. Tra le questioni di natura politico-economico che la comunità internazionale continua a monitorare costantemente, oltre alla tensione tra le due Coree e la questione del Mar Cinese Meridionale, c’è anche quella riguardante la Cina e l’isola di Taiwan.

Si tratta di due entità che non si sono mai mutuamente riconosciute: Pechino non riconosce l’indipendenza teorica, e di fatto, di Taipei. Ma, di tutta risposta, nemmeno il vecchio governo di Taiwan ha mai riconosciuto la Cina come Stato legittimo.

Nel frattempo, dagli anni Settanta in poi, Taiwan è diventata una mini potenza economica, una delle tigri asiatiche: ha una delle riserve finanziarie più grandi del mondo ed è sostenuta militarmente dagli USA, oltre ad essere dotata di capacità tecnologiche di difesa molto avanzate che hanno impedito alla Cina di “invadere” Taiwan.

Il triangolo Cina-Taiwan-Stati Uniti sembra, quindi, esser diventato uno dei temi più caldi a livello internazionale. A parlarci di cosa sta accadendo in Asia è Giuseppe Anzera, docente di Sociologia delle Relazioni Internazionali al Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CoRiS) presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

Perché la questione cino-taiwanese sta ritornando nellagenda della politica internazionale?

“La questione torna ciclicamente ad essere importante: dalla fine della Guerra Fredda ad oggi abbiamo visto almeno tre o quattro situazioni particolarmente accese in cui il discorso della potenziale riunificazione della Cina con Taiwan diventava un elemento di scontro e rivalità, soprattutto tra Pechino e Washington. In questo periodo è tornata ad essere importante per due motivi.

Primo, perché dal 2016 a Taiwan vince un governo con idee abbastanza differenti dal passato. Idee che cercavano di aderire all’adesione di fine anni Ottanta della Cina di Pechino, la famosa Uno Stato due modelli” – secondo cui tutti i territori cinesi dovevano tornare sotto il controllo del Dragone, pur mantenendo delle peculiarità. Dal 2016 a Taiwan c’è un governo che ha poca intenzione di aderire a questo tipo di politica, e questo ha dato vita ad una serie di problemi la cui risposta di Pechino è stata l’aumento dei voli militari e il tentativo di isolare politicamente Taiwan.

Il secondo motivo è il cambio di asse strategico planetario statunitense, dal Medio Oriente verso l’Asia, cosa che voleva fare già l’amministrazione Obama e che probabilmente avrebbe fatto un’ipotetica amministrazione Hilary Clinton: focalizzare la politica USA non più sul Medio Oriente, ma sul continente asiatico. Infatti, l’intervento degli Stati Uniti in questa zona è urgente perché tutti gli alleati degli americani sono preoccupati per l’aumento della capacità di influenza della Cina, soprattutto il Giappone, Corea del Sud, ma anche l’Australia.

A questo la Cina ha reagito con ulteriore veemenza, riportando al centro della discussione internazionale la questione di Taiwan”.

Lei ritiene che alle dichiarazioni di Xi Jinping susseguiranno delle azioni militari da parte della Cina?

“Di fronte alla situazione attuale, Xi Jinping non ha grosse alternative rispetto all’utilizzo di questo tipo di discorso, sul piano della diplomazia e della retorica.

Nel momento in cui a Taiwan si installa un governo dichiaratamente contro la politica dello stato unitario cinese, lui non può che contrastarlo. Del resto, i cinesi sono contrari a questo spostamento strategico americano verso il Pacifico perché sono interessati a esercitare un controllo sempre più forte sul Mar Cinese Meridionale. Una zona molto delicata dal punto di vista geopolitico, perché fonte molto importante di idrocarburi.

Dopo di che, dire che a queste dichiarazioni seguirà un’azione militare è più complicato. In primo luogo, l’intero discorso viene in qualche modo regolato dalla geografia. Taiwan è un’isola che si trova ad almeno 100 km dal punto più vicino della costa cinese, oltre ad essere un soggetto ben munito dal punto di vista militare e deciso a non farsi invadere. Inoltre, fino a poco tempo fa, dal punto di vista delle dichiarazioni cinese, si riteneva che fossero più che altro propaganda, ma a queste non poteva materialmente seguire un’impresa militare così complicata, perché le forze militari del paese non erano assolutamente in grado di fare una cosa del genere.

Negli ultimi dieci anni le cose sono un po’ cambiate: gli strumenti aeronavali cinesi sono migliorati tantissimo, così come la loro disciplina militare e le loro competenze tecnologiche.

Oggi siamo arrivati al punto che questa invasione non la si ritiene più materialmente un’opzione irrealizzabile.

L’America sta già ragionando su cosa fare dando per scontato che comunque, nel giro di qualche anno, la Cina sarà in grado di realizzare un tentativo di sbarco o altre tipologie di azione militare”.

Ma Taiwan può essere realmente considerato come uno Stato indipendente? La tribuna internazionale non ha mai riconosciuto Taiwan come tale.

“Taiwan, in realtà, non si è mai dichiarato indipendente dalla Cina. Quando nel 1949 il Kuomintang e il suo leader, Chiang Kai-shek, perdono la rivoluzione contro le forze di Mao, scappano a Taiwan, lasciata libera dalle forze giapponesi. I leader fuggirono sull’isola non per avere un loro Stato indipendente, ma per poter riavviare da quell’isola il “rollback della rivoluzione cinese. Non c’è mai stato un mutuo riconoscimento della Cina nei confronti di Taiwan come stato indipendente, idem per Taiwan nei confronti della Cina.

Fino agli anni Settanta il governo di Taiwan veniva riconosciuto come il governo cinese, fino al 1971, quando gli Stati Uniti, impegnati nei colloqui bilaterali con la Cina in cambio di una esfiltrazione meno problematica possibile dal Vietnam, ammisero la possibilità di regolarizzare la posizione della Grande Muraglia nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questo ha lasciato Taiwan in una specie di limbo: è uno Stato-non Stato, che non ha seggio all’ONU ma viene trattato come un’entità indipendente.”

In conclusione, quali sono i futuri scenari possibili sulla questione Cina-Taiwan?

“Secondo me, questa situazione andrà avanti ancora per un po’. La Cina continuerà a utilizzare Taiwan come elemento di debolezza strategica statunitense, ma anche come carta da giocare per acquisire vantaggi in altri contesti. Gli Stati Uniti cominceranno ad aumentare sempre di più le opzioni strategiche di intervento. Prima gli USA pensavano alla questione taiwanese come un contorno dell’enorme impianto di strategia globale americana, che era incentrata soprattutto sul Medio Oriente. Ora, invece, si stanno concentrando sul contesto asiatico, e questo fa sì che si crei una sorta di macchina che si auto alimenta per quanto riguarda l’attrito tra USA e Cina. Se domani dovesse scoppiare un conflitto tra i due paesi sulla questione di Taiwan, probabilmente perderebbero tutti quanti. La Cina si chiuderebbe in un’impresa militare creando enormi danni a Taiwan e ad essa stessa. Taiwan avrebbe grossi problemi, in quanto tutta la sua crescita economica verrebbe limitata da uno scontro militare mostruoso. Gli Stati Uniti si troverebbero in grande difficoltà nel cercare di correre in aiuto e di entrare in un conflitto per motivi che iniziano ad essere anche problematici da portare avanti, visto che gli USA hanno sempre spinto per mantenere lo status quo sul Taiwan.”

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here