L’escalation di violenza nel Kosovo del Nord

La protesta serba coinvolge la KFOR

Attuata dal governo kosovaro di Albin Kurti per garantire il pacifico insediamento dei sindaci neoeletti di etnia albanese a seguito di elezioni amministrative segnate dal boicottaggio della popolazione serba e l’affluenza del 3.47%, il 26 maggio l’entrata delle forze di polizia kosovare nelle sedi dei comuni di Leposavić, Zvečan e Zubin Potok ha costituito la scintilla di una crisi di sicurezza nel Kosovo del Nord. Violenti proteste serbe  sono immediatamente esplose incontenibili e hanno coinvolto il 29 maggio a Zvečan le truppe NATO della missione KFOR (tra le quali il nono Reggimento Alpini), guidata dal generale di divisione italiano Angelo Michele Ristuccia. La missione dell’Alleanza atlantica ha riportato 30 feriti ed ha annunciato il dispiegamento di 700 nuovi militari in Kosovo, da aggiungersi ai 3.800 già presenti. 

Kurti, che decise di mandare le forze senza consultare la KFOR, ha accusato delle violenze “milizie fasciste” serbe operanti nel Nord, menzionando di fronte al Parlamento alcuni nomi. Seguendo la crisi, sin dal 26 maggio la Serbia tiene l’esercito in stato di massima allerta.

All’origine della crisi

Regione balcanica senza sbocchi al mare, nel Medioevo il Kosovo viene  invaso dai serbi ed occupa un posto importante nella loro storia nazionale principalmente per due motivi: la costituzione del loro primo patriarcato ortodosso a Pec e la battaglia antiottomana persa del 28 giugno 1389 a Kosovo Polje, preludio di circa 400 anni di dominio turco sulla Serbia, durante il quale la maggior parte della popolazione albanese si convertì all’Islam sunnita. Nella storia degli albanesi l’area è centro del movimento politico e armato che culminerà nel 1912-1913 nella costituzione dell’Albania indipendente, nel mentre il Kosovo viene invaso e annesso dai serbi durante le concomitanti guerre balcaniche.

Focolaio di rivolte antiserbe, dopo la Prima Guerra Mondiale la regione entra nella Jugoslavia e gode nel 1974-1989 di una larga autonomia, la cui revoca costituisce l’anticamera della dissoluzione violenta di tutta la federazione multietnica. Nel 1998-1999, in seguito alla rivolta armata condotta da un Esercito di Liberazione progressivamente diventato alleato USA, è terreno di conflitto e di una pulizia etnica condotta da Belgrado che si conclude quando la NATO bombarda la Jugoslavia e l’obbliga a ritirare tutte le forze di sicurezza dalla sua ormai ex-provincia. Amministrato dall’ONU ed entrato sulla via della democrazia parlamentare, il nuovo stato, che proclama l’indipendenza il 17 febbraio 2008, è riconosciuto da tutti i principali paesi occidentali (USA in primis) ma non da Russia e Cina e sopratutto dalla Serbia. In un parere del 2010 la Corte Internazionale di Giustizia affermò che la proclamazione d’indipendenza kosovara “non ha violato la legge internazionale”.

Distribuiti in tutto il territorio del nuovo stato (consistente la loro presenza a Štrpce nel sud) ma più compatamente nei quattro comuni contigui settentrionali di Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e Mitrovica del Nord, i serbi del Kosovo – il cui numero si stima in più di 100 mila su una popolazione totale di 1.8 milioni (in stragrande maggioranza albanesi) – non riconoscono la sovranità di Pristina nei loro confronti. Al nord mantengono con Belgrado stretti legami e sono sostenuti dal presidente della Serbia Aleksandar Vučić

Nel 2013 un accordo Kosovo – Serbia mediato dall’UE decise l’istituzione di una Associazione delle Municipalità a maggioranza serba del Kosovo con competenza sullo sviluppo economico, l’istruzione, la sanità e la pianificazione urbana e rurale delle aree che l’avrebbero composto. Mai implementato, l’accordo rimane la condizione per la Serbia per considerare fruttuoso i negoziati con i kosovari. Il dialogo Pristina – Belgrado entrò in un vicolo cieco nel 2022 quando – in protesta alla destituzione da Kurti del capo della polizia (serbo) del Kosovo del Nord Filipovic – i membri serbi del servizio civile delle municipalità settentrionali si dimisero in blocco. Di qua la necessità delle elezioni svolte al Nord e di una stretta diplomatica UE su Vučić per indurlo a concludere il 27 febbraio un accordo con Kurti. Elaborato da Parigi e Berlino e ispirato alla normalizzazione del 1972 tra le due Germanie all’epoca della Guerra Fredda, l’accordo allude al mutuo riconoscimento e include la costituzione dell’Associazione serba. Bruxelles è intenta a rendere l’accordo parte del pacchetto negoziale per l’adesione nell’UE dei due paesi. 

Vicolo senza uscita?

Kurti si trova diplomaticamente nel vicolo: gli USA e Macron l’hanno addittato a responsabile della nuova crisi mentre l’UE gli ha presentato delle richieste perentorie (elezioni nei comuni settentrionali assicurando la partecipazione serba in esse e inizio dei preparativi per la costituzione dell’Associazione). Gli americani hanno espulso il Kosovo dall’esercitazione militare NATO a guida USA Defender 23. Il premier non esclude nuove elezioni nel Nord a patto che la protesta serba termini, tentando così di coinvolgere le controparti slave. Il 5 – 6 giugno visiteranno Pristina e Belgrado gli inviati UE ed USA Miroslav Lajcak e Gabriel Escobar, la cui forte carta negoziale dovrebbe essere la minaccia alle parti di un embargo protratto alle relazioni politiche con Bruxelles e Washington nel caso di mancate aperture a una nuova fase risolutiva di dialogo.

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Gjergji Kajana
Classe anni ’80, albanese, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Giornalista freelance dal 2009 per la stampa albanese in madrepatria e Italia e siti d’informazione italiani, dove spicca Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. Focus d’interesse l’Albania, la sua diaspora e i Balcani in particolare, le relazioni internazionali e la geopolitica in generale. Nel 2019 – 2021 impegnato presso l’Ambasciata d’Albania in Italia in un programma ONU sulla diaspora albanese.

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