Libertà religiosa e Islam: il confronto durante Atreju

Ieri ad Atreju si è tenuto un dibattito sulla libertà religiosa e sull’Islam. Il fulcro del confronto era il dialogo con l’Islam, soprattutto quello radicale, da parte dell’Occidente cristiano. La religione islamica non ha una guida attualmente esistente e riconosciuta, ma la sua pratica cambia in base allo Stato dove il musulmano professa la sua fede. La questione islamica, per questo, è centrale nel dibattito mondiale, a partire dalla crisi afgana, ove, ad esempio, il ritorno dei Talebani ha portato una visione fondamentalista dell’Islam. 

Dalla fine di agosto, l’Occidente ha rivolto lo sguardo a Est, ma solo per un mese. Terminato il ritiro delle truppe occidentali, i Talebani si sono insediati e hanno organizzato a proprio modo lo Stato, mentre le telecamere si allontanavano. Oggi la situazione afgana è difficile: carestia, fame, denutrizione infantile e instabilità sociale e politica. Le libertà che gli alleati avevano riportato nel Paese, arrestati i Talebani all’inizio del millennio, è stata cancellata. Alle donne è stato impedito l’accesso alle università, all’educazione e l’Islam radicale, “un male”, come ha sottolineato Abdellah Redouane, segretario generale della Grande Moschea di Roma, invitato alla Convention di Atreju, ha riportato in auge delle consuetudini brutali che i Talebani applicano in maniera spietata. 

Inoltre, chi combatteva i Talebani opponendo resistenza è rimasto solo. Ahmad Massoud, figlio del celebre “leone del Panshir”, non è stato aiutato dall’Occidente e, dopo il ritiro, la sua azione è stata circoscritta in limitati territori a causa della libertà di azione talebana lungo i confini del Paese. In collegamento, ieri, c’era anche Ali Maisam Nazary, responsabile delle relazioni internazionali del Fronte Nazionale di Resistenza Afgana di Massoud, che ha speso parole dure nei confronti degli occidentali, giacché il ritiro, secondo lui, “è stato un tradimento da parte di tutta la comunità internazionale” e “per questo la credibilità dell’Occidente soffre”. L’insediamento talebano ha relegato la resistenza di Massoud a un fenomeno marginale, scemato col passare dei mesi, perché non in grado di affrontare le milizie fondamentaliste da solo. Riguardo alla condizione sociale in Afghanistan, egli ha affermato che “la libertà si è persa totalmente con l’allontanamento degli occidentali; i cittadini hanno perso il diritto di godersi la vita. Il Paese è stato messo in mano a un gruppo terroristico con ideologia oscurantista, legittimata da molti altri protagonisti”. La diversità di culti religiosi, ritrovata dopo la cacciata dei Talebani nei primi anni Duemila, oggi è scomparsa. E sono stati uccisi molti credenti di minoranze religiose, come gli indù. “La nostra resistenza vuole ripristinare la libertà”, è la speranza di Ali Maisam Nazary, anche se forse resterà solo tale. 

Poco dopo l’escalation afgana, i media nazionali avevano ripreso molte dichiarazioni di esponenti politici e istituzionali, discordanti sul tema del “dialogo”. Dialogare vuol dire riconoscere? Si può parlare, si possono intrattenere rapporti coi fondamentalisti? Stefano Pontecorvo, ambasciatore e uomo chiave nelle operazioni di ritiro da Kabul, ieri ha dichiarato con fermezza che “bisogna dialogare con tutti, senza riconoscere [il regime talebano]”. Nonostante il fatto che i Talebani non siano cambiati, come alcuni ritenevano, il dialogo è necessario. Il problema principale, come ricordava l’ambasciatore, non sono i Talebani, che “non hanno forze per assicurare il terreno”. “In Afghanistan ci sono 18 sigle terroristiche riconosciute: il pericolo sono gli altri. Non c’è stata una sola bomba talebana fuori dall’Afghanistan in 20 anni”. Il rischio, dunque, è che l’Afghanistan diventi un covo di terroristi col potere in mano; la presenza di ISIS-K nel Paese è molto insidiosa in tal senso. I Talebani, perciò, sono un pericolo limitato: non sono in grado di assicurare una stabilità, per cultura, valori e incapacità di gestione sociopolitica. E su questo terreno di inabilità potrebbero annidarsi numerosi terrorismi, tali da poter rendere l’Afghanistan uno Stato – base di fondamentalismi e un pericolo per l’Occidente. 

Pertanto, il legame tra Islam e questione afgana è forte. Il lavoro degli operatori istituzionali e politici occidentali deve essere svolto in un duplice senso: dialogo con una religione diversa dalla propria e fermezza nelle decisioni verso azioni lesive della libertà e dei diritti. Il fondamentalismo è una piaga del nostro tempo, che va risanata con scelte chiare da diversi punti di vista: culturali, politici e geopolitici. E, soprattutto, bisogna riportare l’attenzione in Afghanistan, il quale oggi ben rappresenta una società che ha vissuto fasi alterne opposte tra loro: la libertà dei costumi e delle religioni prima dell’invasione sovietica, l’oscurantismo durante i talebani, i valori ritrovati dopo la liberazione occidentale e di nuovo, attualmente, la crisi socioculturale. La minaccia terroristica, partendo da queste considerazioni, consegue ma non è l’unica negatività. 

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