Il regista Giorgio Magarò racconta il suo nuovo film tra retrofuturo, umanesimo e cinema artigianale
“L’albero di Tesla” è il nuovo film di Giorgio Magarò, videomaker e regista indipendente noto per il suo impegno nel cinema sociale e nell’educazione cinematografica. Ambientato a Pavia nel 1924, il film racconta l’arrivo dell’anziano Nikola Tesla (Luigi Cori) nella città lombarda per incontrare la giovane studiosa Rita Brunetti (Chiara Vitti), autrice di ricerche sui campi magnetici che il grande scienziato ritiene fondamentali per perfezionare il suo Teslascopio, un dispositivo concepito per comunicare con forme di vita extraterrestri.
Ad accompagnarlo c’è Katharine McMahon Johnson (Inga Babenko), amica fedele e poetessa, che cerca invano di riportarlo a una dimensione più umana e relazionale. Mentre la città vive i suoi ritmi, Tesla si isola su una collina poco fuori Pavia, dove, sotto un grande albero, tenta disperatamente di captare un segnale da Marte.
Con uno stile sospeso tra storia e fantascienza, Magarò prosegue il suo percorso di cinema indipendente dopo titoli come CHAOS e L’isola sbagliata. L’albero di Tesla, già proiettato con successo a Pavia e Lodi, è atteso ora a Milano e Genova, dove promette di coinvolgere ancora il pubblico con la sua poetica riflessione sul confine tra scienza, solitudine e sogno.
Nel suo film lei rilegge la figura di Nikola Tesla, immaginando un periodo inedito e mai documentato trascorso nel Pavese negli anni ’20 del Novecento. Qual è stata la scintilla che l’ha spinta a voler trasformare la sua vita in un film? Com’è stato, sul piano creativo, costruire questa storia alternativa? In che modo questa narrazione dialoga con la storia italiana e con il nostro presente?
Nikola Tesla è uno scienziato che ha rappresentato nel mondo della narrativa fantascientifica l’eroe maledetto, lo scienziato pazzo. Un mito cresciuto grazie al suo non allineamento agli standard accademici e culturali predominanti. Tesla era un vero outsider, non si è mai laureato (non poteva permetterselo) eppure ha forgiato la scienza del ‘900 anche se, paradossalmente, è quasi invisibile nei testi scientifici scolastici. Anche la sua visione utopica, sempre legata a doppio binario sia alla scoperta rivoluzionaria che ad un umanesimo sociale è abbastanza unico: Tesla ha sempre visto la ricerca e le invenzioni come qualcosa che doveva cambiare le condizioni di vita reali delle persone.
Forse anche per questo ha sempre avuto più amici nel mondo culturale ed artistico che in quello della ricerca e soprattutto della grande finanza che lo ha sempre sfruttato per il proprio tornaconto. È questa sua visione “altra” che mi ha spinto a parlare di lui ed in questo mi è piaciuto calare questa avventura nel contesto italiano di inizio ‘900 con la sua carica futurista spesso serva dell’ottusità sanguinaria fascista che già incombeva. Su tutto questo l’interprete principale Luigi Cori è riuscito a regalarci con maestria il Nikola Tesla che volevo e che “vedevo”. Un utopista forte, ma anche romantico e fragile. Per questo il racconto parla anche al presente: i sognatori sono sempre più isolati. Derisi. Da una parte considerati inutili dall’industria culturale dall’altra parte snobbati dalle stesse amministrazioni locali che spesso sembrano promuovere solo ciò che dà loro maggior consenso e visibilità. È una cosa sulla quale varrebbe la pena riflettere o la cultura innovativa e dal basso morirà.
Il paesaggio Pavese non si limita a fare da sfondo — respira insieme alla storia di Tesla (proprio come fa l’albero che dà il titolo al film) In che modo la città ha influenzato il suo linguaggio visivo e il tono emotivo del film? Ha avuto un aiuto dalla comunità?
Pavia è una città che è stata usata molto nel cinema ma soprattutto come “controfigura” della Milano antica. Solo di recente c’è stato un vero rinascimento cinematografico che ha investito molte realtà locali. Anche per me girare in questa bella città è stato occasione di stimoli visivi e storici notevoli. È una città di fiume, è una città di vicoli e scorci storici. Anche nelle sue assenze come la Torre Civica, un vero spettro che aleggia ancora di fianco al Duomo nonostante il crollo devastante del 1989. Ed è stato emozionante “ricostruirla” per il film grazie a Gabriele Rossi che ne ha curato la modellazione 3D per gli effetti speciali.
Ma Pavia non è solo una città, è un’area immensa che si sviluppa nell’Oltrepo dove abbiamo girato le scene dell’albero nella seconda parte del film. Una zona incontaminata non raggiunta dalla forte urbanizzazione e che con i suoi castelli, le sue colline e le sue foreste rappresenta un esempio di bellezza abbastanza selvaggia e unica in Lombardia. L’albero è su un campo isolato e silenzioso ma facilmente raggiungibile nel territorio di Montesegale, l’ideale per allestire il nostro set: parcheggio comodo, corrente e pernottamento erano tutti in un’area ristretta. Per quello che riguarda l’aiuto della comunità parlerei innanzitutto delle comparse. Da quando, grazie ad un bellissimo articolo di Maria Grazie Piccaluga su “La Provincia Pavese”, abbiamo pubblicizzato i primi ciak, siamo stati sommersi di offerte di collaborazione. Le comparse sono arrivate preparatissime e hanno letteralmente svaligiato le proprie soffitte per trovare i costumi più adatti. Alcuni di loro si sono persino trasformati in attori che hanno arricchito la storia anche con delle piccole parti dialettali davvero preziose.
Non ultima la collaborazione di ben due musei (Museo della Tecnica Elettrica e Museo della storia Naturale Kosmos) che ci hanno messo a disposizione dei bellissimi spazi e di altre realtà come il parco degli Horti, il maneggio “Sogni e Cavalli” e lo storico pub “Il Broletto”. Rispetto ad altre realtà, Pavia è una città piccola, non solo negli spazi ma anche nella facilità dei contatti e questo ha portato una grande semplificazione organizzativa. Vorrei infine ringraziare personalmente il sindaco di Pavia Michele Lissia per aver partecipato con entusiasmo e da “vero spettatore” alla prima al Politeama di Pavia.
Il film gioca anche con l’estetica retrofuturista e, a un certo punto, propone un’affascinante riflessione sulla tecnologia del cinema delle origini: Tesla assiste infatti alla prima proiezione 3D di un film realmente esistito. Cosa l’ha ispirata in questa scelta? Ha rigirato quel materiale? E più in generale, qual è il suo rapporto con la tecnologia e con la tecnica cinematografica? Quanto conta, secondo lei, per il Cinema?
Ho scoperto “The Man from M.A.R.S.” grazie a Jonathan Sabin filmmaker che gestisce il sito statunitense Variety Film specializzato in film 3D. Con le mie ultime due produzioni Limbo e CHAOS mi sono cimentato proprio nel 3D e quando ho scoperto che nel 1922 era stato realizzato un film con tecnica stereoscopica attiva mi sono detto che Tesla non poteva non essere attratto da questa innovazione. Mi serviva anche da prologo alla nostra storia in cui si parla della ricerca di contatti radio con i marziani ed il film del 1922 parla proprio di questo: un radioamatore che cerca disperatamente questo contatto. Per il film abbiamo deciso di rigirare in green screen con i nostri attori (Francesco Menichella e Gabriele Zanoncelli) tutto lo spezzone, sia per ottenere una qualità maggiore (purtroppo il film originale è in condizioni abbastanza critiche) sia per avere una continuità stilistica con alcune vicende successive della nostra storia.
Il cinema è tecnica. Ma mi piace pensare alle origini greche di questo termine: téchne, ovvero non la tecnica come la semplice costruzioni di macchine, ma l’arte del “saper fare”. E l’arte è allo stesso tempo espressione di sé e artigianato, saper usare le mani per dare voce all’anima. Anche per questo mi sono divertito a costruire personalmente molti degli oggetti, come il Teslascopio, che appaiono in scena. Il cinema secondo me è tutto questo. Sono affascinato dall’innovazione tecnica ma solo quando questa è in grado di narrare qualcosa di più e meglio. Per questo adoro Wim Wenders. La sua meta-riflessione continua sullo strumento, l’immagine e la narrazione. Questo mi ha spinto anche a lavorare con il 3D in passato ed in ogni caso a pensare come luogo eletto per la visione dei miei lavori la sala cinematografica: l’unico ambiente davvero in grado di restituire la visione ed il pensiero del regista. Sia per qualità della visione e del sonoro che per il rapporto diretto con il pubblico. L’aspetto che più lega il cinema alle sue radici teatrali. Anche per questo abbiamo girato in cinemascope con audio surround 5.1 cose impossibili da apprezzare sul piccolo schermo e tantomeno su tablet o smartphone.
Ho trovato interessante il modo in cui ha trattato il tema del femminile, dando dignità e centralità a una figura di ricercatrice italiana. Può raccontarci cosa l’ha spinta a fare questa scelta? Da dove nasce questa attenzione?
Penso che “riposizionare” l’importanza storica delle donne sia un atto dovuto. Le donne, sia nel mondo culturale che scientifico sono sempre state marginalizzate, anche quando erano le vere artefici di scoperte ed intuizioni rivoluzionarie. Anche qui, come per Tesla, sono svanite dai libri. Per questo Rita Brunetti è emersa con intensità (anche grazie alla splendida Chiara Vitti) nella nostra storia. Non secondaria anche la figura di Katharine (interpretata con estrema sensibilità dall’attrice ucraina Inga Babenko) che riporta Tesla ad un mondo più fisico e relazionale.
Non dimentichiamo poi che, storicamente, il genio dello stesso Nikola Tesla è intriso del DNA di sua madre, donna davvero geniale: Georgina-Đuka Mandić e che anche la riflessione di Tesla sulle donne che viene ascoltata nel film è una sua reale affermazione. Infine anche lavorare a stretto contatto con mia moglie Arianna Merlini che ha curato i costumi e l’organizzazione è stato fondamentale per mantenere sempre un’attenzione più ampia e non solo rispetto al mondo femminile ma anche sulla natura e sul mondo incredibile degli alberi. È stata proprio lei a farmi conoscere i libri di Stefano Mancuso. Penso che avere un sincero sguardo sul femminile, aiuti tutti ad avere una visione più aperta e curiosa dell’universo.
Le sue ispirazioni sono principalmente cinematografiche? Se sì, quale tipo di cinema — autori, movimenti, estetiche — l’ha influenzata maggiormente in questo progetto?
Partendo sempre da Wim Wenders amo tutto ciò che è lento, riflessivo, con ampio respiro. Per questo non amo le serie. Non mi piacciono i dialoghi serrati fatti spesso di frasi inutili. Non mi piace la rappresentazione della violenza fine a sé stessa. Mi piace fare film con ritmi che costringano lo spettatore a guardare ed ascoltare. I miei lavori danno sempre ampio spazio alle immagini ed alla musica e quindi all’immaginazione. Non racconto solo una storia, cerco di trasportare chi guarda in luoghi aldilà del tempo e dello spazio. Per questo coinvolgo sempre ottimi musicisti, da Gabor Lesko (Emoticon) a Roberto Aglieri (L’isola sbagliata, Chaos) e Massimo e Vittorio Bendinelli che hanno dato l’anima musicale a “L’albero di Tesla”. L’uso del Theremin in questo ultimo lavoro ha poi creato un vero ponte storico con l’innovazione di inizio ‘900. Ma mi piace anche sperimentare. In questo film ho anche creato con la AI tre canzoni molto personali, quasi ad integrazione della mia sceneggiatura.
A cosa sta lavorando attualmente?
Una piccola produzione ha tempi molto dilatati. Ora il mio unico obbiettivo e far vedere in più luoghi possibile e a più spettatori “reali” la vicenda di questo incredibile uomo e scienziato. E poi sarebbe bello trovare una distribuzione…ma questa è un’altra storia.