Non è tutto garantismo quel che si dice

L’hanno ribattezzato liberale, paladino dell’art. 27 della Costituzione, da ambo le parti della politica sono arrivate dichiarazioni di compiacimento e sorpresa; in verità, Luigi Di Maio è lo stesso di sempre, ma un pizzico più furbo. Il Movimento 5 Stelle, sotto l’egida di Conte, uomo e politico ben diverso da Grillo, e con l’insegnamento tratto dagli errori commessi, ha imboccato una strada diversa da quella ribelle e radicale: è diventato casta. E nella casta, così come in ogni luogo ideale che racchiude diverse anime ideologiche e valoriali, ci sono anche i garantisti – nella prassi, purtroppo, più spesso a parole che nei fatti.

La conversione, o presunta tale, non è avvenuta sulla via di Damasco, come fu per San Paolo (i santi in politica scarseggiano), bensì su quella di Lodi. L’antefatto? La gogna mediatica alla quale fu sottoposto Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, costretto alle dimissioni nell’agosto del 2016, dopo aver subito le pressioni di una certa parte politica, soprattutto quella grillina, giacché condannato in primo grado con l’accusa di turbativa d’asta. Il 25 maggio, però, Uggetti è stato assolto dalla Corte d’Appello di Milano perché “il fatto non sussiste”. Ebbene, il fatto non sussiste, ma cinque anni di inferno giudiziario e giornalistico sì, sussistono eccome. E ad alimentarli ha contribuito il M5S, dai sit-in in piazza a Lodi, a cui lo stesso Di Maio aveva preso parte, fino alle più banali considerazioni o esempi fatti negli ultimi anni, in televisione e sui giornali.

Di recente è arrivato il contrordine, con una lettera al Foglio, nella quale si legge così: “[…] l’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli“. E se Conte ha applaudito il gesto di Di Maio, Travaglio ha affermato che le scuse a Uggetti sono “una solenne sciocchezza”. A margine dei due punti di vista, quello del direttore del Fatto Quotidiano e quello del ministro degli Esteri, si può rilevare che l’uno, Travaglio, ha perseverato nel suo modus operandi, mentre l’altro, Di Maio, ha invertito furbamente la rotta. Ma entrambi partivano dalla stessa base: il giustizialismo.

Due sistemi, oltre che vedute socio-politiche, a confronto: garantismo e giustizialismo. Da una parte, una concezione politica ed etica, che tutela le libertà fondamentali dell’individuo da possibili abusi dello Stato e del sistema giudiziario; dall’altra parte, uno schema di pensiero tanto ottuso quanto sbrigativo, che è emerso e si è consolidato negli ultimi vent’anni. In una società che corre veloce, i cui consociati fanno a gara per il conseguimento di obiettivi personali e professionali, anche la giustizia deve gareggiare la maratona dei superficiali: una risposta rapida e sommaria, quella della giustizia “giustizialista”, che riceve in pasto uomini e donne denominati “imputati” ab initio, in un processo in cui gli innocenti sono “colpevoli che l’hanno fatta franca”. Davigo docet. Si innesca così un cortocircuito che neppure le sentenze di assoluzione sono in grado di fermare, poiché l’imputato è assolto, ma nessun giudice potrà ridargli anni e mesi passati sotto la lente dei media.

L’abolizione della prescrizione, che il ministro Cartabia sta cercando a tutti i costi di ripristinare, s’inserisce nella corrente dei tempi marcati 5 Stelle. Nel Paese ove i processi civili durano in media 514 giorni e quelli penali circa 600 (tra rito collegiale e monocratico)*, abolire la prescrizione vuol dire lasciare che la giustizia cannibalizzi vita e verità di un individuo. Vita, perché non è accettabile che qualcuno resti in balìa di una sentenza senza riferimenti alcuni; verità, poiché, qualora colpevole o innocente, è un diritto conoscere il verdetto in tempi celeri. Lo ricorda anche la Costituzione, all’art. 111, quando disciplina la ragionevole durata del processo. Ma cosa sarà mai la Carta, frutto di lotta e cultura dei padri costituenti, in raffronto alle scelte di Alfonso Bonafede?

La ruota gira e non si può pensare di ricostruirsi, personalmente e partiticamente, chiedendo scusa e voltando pagina. Facile così. Senza progettualità, visione e competenza non si riparte dalle macerie di una crisi e di una pandemia senza precedenti. A maggior ragione se il proprio partito, cioè quello di Luigi Di Maio, è al governo da tre legislature e oggi è ben quotato dai sondaggisti – che dir si voglia, Renzi o Berlusconi pagherebbero oro per avere più del 15% oggigiorno. Vedremo, di qui in avanti, se il M5S cambierà rotta e adopererà cautela, anziché forca, verso imputati e condannati nei primi gradi di giudizio. Tra le parole e i fatti, come spesso accade, c’è l’abisso.

Che Di Maio vuole evitare, whatever it takes.

*dati Ministero della Giustizia – 2019

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