Normale di Pisa, i neodiplomati: l’eco del discorso nella cattedrale del deserto

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“Ma quale eccellenza tra queste macerie? Quale valore ha la retorica dell’eccellenza se fuori da questa cattedrale nel deserto ci aspetta un contesto desolante?

Due domande. Due domande che hanno il sapore di rivoluzione. Due domande che appartengono più ai discorsi di piazza, alle urla degli studenti, alle manifestazioni davanti alle università o agli striscioni rivolti al Ministero durante gli scioperi. Due domande poste invece durante la formale cerimonia di consegna dei diplomi alla Normale di Pisa. Circa sedici minuti di intervento in cui le studentesse neodiplomate Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi hanno discusso le trasformazioni e le profonde disparità di “un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto” in cui “le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli”.

Due domande frutto di “un confronto durato mesi, se non anni”, poste con l’emozione e la tensione nelle corde vocali di chi è conscio che ciò che sta per dire, avrà una risonanza esponenziale. Una tensione che non ha lasciato spazio a errori o fremiti bensì volta a evidenziare l’importanza delle vostre parole. “Un testo scritto in dieci, su per giù” redatto e raccontato “da pochi fortunati, che hanno avuto un palco privilegiato, ma le voci sono molte di più”. Quali sono state le prime sensazioni dopo quei sedici minuti?

Per la verità non ci aspettavamo un riscontro così ampio, e manifestazioni di apprezzamento così numerose e così variegate nella loro provenienza, da studentesse e studenti di laurea triennale a professoresse e professori emerite ed emeriti. Ognuna e ognuno di noi è arrivato a questa esperienza tramite un percorso condiviso, e un confronto che non è stato limitato a chi ha steso il discorso, ma ha interessato altre componenti della nostra istituzione nel corso degli anni. Il discorso che abbiamo pronunciato è il frutto di queste elaborazioni, e vuole essere uno sprone a discutere in prospettiva ampia della situazione presente dell’università e del suo futuro; non solo una critica, ma un momento necessario di responsabile riconoscimento di problematiche condivise che chiedono di essere affrontate e risolte. Sapevamo che era importante perseguire l’intento che ci eravamo date e dati, esplicitando il nostro pensiero; certamente è stata grande la sorpresa nel constatare quanto i contenuti abbiano fatto breccia, e quanto interesse abbiano suscitato.

“Bisognava dire, raccontare che il nostro privilegio esiste ed è esistito in un contesto di macerie, un contesto che vede da vent’anni tagli all’istruzione e alla ricerca” così durante il vostro intervento al Tg3 per rimarcare le iconiche parole della cerimonia. Dalle migliaia di commenti e condivisioni, sembra che abbiate scosso le coscienze di una realtà universitaria dai piedi d’argilla a cui segue la speranza di un cambiamento. Come si cambia un contesto accademico così desolante formatosi negli ultimi decenni?

Il contenuto del nostro discorso non rivela né ha la pretesa di rivelare alcunché di nuovo, anzi: come emerge dai moltissimi feedback che ci sono pervenuti, e dai dibattiti degli ultimi anni, le problematiche che abbiamo evidenziato sono da tempo note e condivise. Ciò che ha permesso al nostro intervento di avere la risonanza che sta avendo è il palcoscenico che abbiamo avuto, un palcoscenico caratterizzato proprio da quel privilegio che intendiamo demistificare. Dati alla mano, come abbiamo cercato di sintetizzare, si nota un uso eccessivo della retorica dell’eccellenza e del merito, come foglia di fico per coprire, e surrettiziamente giustificare, tagli sistematici all’università e alla ricerca, che non nascono certo oggi. Anche per questo, non è semplice porre rimedio a una tendenza così radicata. Senza dubbio è necessario un maggiore ammontare di finanziamenti, che non privilegino soltanto i centri di ricerca che risultano in posizioni elevate nei ranking, ma che raggiungano anche realtà periferiche ed estendano così l’accessibilità di formazione e ricerca. Inoltre, il sistema universitario dovrebbe riuscire a garantire una maggiore stabilità nelle prospettive di carriera, che si traducono oggi in lunghi periodi di incertezza, precariato, sottoretribuzione e che non fanno che contribuire al malessere già presente vista l’aspra dinamica competitiva che un sistema del genere induce.

Un contesto che non può certo essere circoscritto all’ambito universitario, in quanto i temi correlati alle disparità di genere, al divario territoriale nord-sud, alla perdita dell’impegno civico e all’inasprimento del mondo lavorativo che (in)segue unicamente le logiche del profitto sono argomenti che, quotidianamente, vengono affrontati a livello globale. Il 22 gennaio 2021 nella Giornata internazionale dell’educazione si è svolto un webinar sul libro «Nello specchio della scuola» del ministro Patrizio Bianchi in cui è stato evidenziato come «La scuola è lo specchio dell’Italia e l’Italia potrà ripartire solo se rimetterà al centro la scuola, fulcro della società».  Ritenete che se l’Università dovesse destreggiarsi e uscire dalle «macerie», questo porterebbe l’Italia intera a uscirne?

Le parole citate del ministro Bianchi possono anche essere condivisibili: la scuola, come l’università, sono specchio del paese e fondamentali per la ripresa. I problemi cominciano quando si definisce cosa sia questa ripresa e come la si vuole raggiungere.

La portata del divario di genere e territoriale e della dispersione scolastica e universitaria non è circoscritta all’università, ma è una questione che intreccia il mondo della scuola, il mondo del lavoro e la società nel suo insieme. Nel nostro discorso abbiamo citato un dato: in Italia, solo il 29% di chi ha tra i 25 e i 34 anni ha ricevuto un’istruzione terziaria contro il 41% della media europea. È abbastanza ovvio che se questo numero aumentasse non sarebbe una vittoria per la sola università, ma per tutto il Paese. È però illusorio credere che questo sia possibile senza rivitalizzare – leggasi rifinanziare – il sistema universitario nel suo insieme e senza massicci investimenti sul diritto allo studio.

Abbiamo parlato del forte definanziamento dell’università pubblica e del fatto che i fondi, fortemente ridotti, vengono distribuiti sempre di più tramite logiche competitive. È così anche nel PNRR, dove il finanziamento ordinario (FFO) rimane immutato, ma ci sono diversi finanziamenti assegnati su base competitiva o volti a favorire sinergie con investitori privati. Si ingenera così un ben noto circolo vizioso: le istituzioni già ricche si accaparrano i finanziamenti, quelle in difficoltà ne hanno sempre meno. Insomma, è importante che il sistema universitario riesca a smarcarsi da logiche aziendalistiche che misurano la performatività secondo criteri puramente quantitativi. Questo sistema, inoltre, finisce per favorire l’atomizzazione della forza lavoro: studentesse e studenti, studiose e studiosi vengono inseriti in una dinamica competitiva che spesso pregiudica la cooperazione, vero motore della ricerca, e ha gravi effetti sulla loro salute psicologica.

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