Verba manent: domandare è lecito, purché non si dicano sciocchezze

Ci sono risposte date senza troppo pensare, sbagliate, fuori luogo, inappropriate se la persona che le propone è un personaggio pubblico. Ma solo le risposte fanno clamore, perché le interviste si basano su di esse. Avete mai letto un’intervista soffermandovi sulle domande? A Sofia Goggia è toccato il patibolo mediatico per alcune affermazioni borderline sugli omosessuali. La domanda alla quale Sofia ha risposto, però, era tanto inutile quanto pregiudizievole: “Ci sono omosessuali tra gli atleti?”

Ma che significa? Perché chiedere a una sportiva se tra i suoi colleghi ci siano omosessuali? Il pregiudizio, in verità, sta tutto nell’interrogativo. Oggigiorno per rendere più vivace un’intervista si deve parlare di omosessualità, chiedere all’intervistato qualcosa relativamente al mondo gay, se nel suo ambito vi siano gay, quanti siano e se questi siano bravi. È probabile invece che gli omosessuali, i quali, a parte codeste sciocche domande, sono indistinguibilmente persone come gli eterosessuali, si sentano più indignati dalla domanda che dalla risposta di Sofia. O almeno dovrebbero. 

È peggio un sistema che prova a far fuoriuscire parole malamente interpretabili per fare scalpore, rispetto a una ragazza che si lascia andare ad affermazioni rivedibili ma, tutto sommato, neppure troppo scandalose. Perché se è vero che il riferimento alla Streif di Kitz (la pista più pericolosa al mondo, che secondo Sofia gli uomini omosessuali non sarebbero in grado di percorrere) è sbagliato, il rifiuto agli uomini che si trasformano in donne e competono nelle gare femminili è giusto.

Se iniziassimo a indignarci anche per le domande che vengono fatte, forse il giornalismo italiano capirebbe il baratro nel quale è piombato da molto tempo. Non è detto che si rialzerebbe, ma almeno capirebbe la sua pochezza. 

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