A un secolo da Matteotti, oggi il fascino della res publica

“Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!” rispondeva l’onorevole Giacomo Matteotti al Presidente dell’aula che gli aveva consigliato di parlare «prudentemente». “Certo la pubblicità è per voi un’istituzione dello stupidissimo secolo XIX. Comunque, dicevo, in questo momento non esiste da parte dell’Assemblea una conoscenza esatta dell’oggetto sul quale si delibera. Soltanto per quei pochissimi nomi che abbiamo potuto afferrare alla lettura, possiamo immaginare che essi rappresentino una parte della maggioranza. Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… cotesta lista non li ha ottenuti di fatto liberamente”. 

Non ci sembrano tanto lontane, pur essendo trascorsi cento anni, le parole che il giovane Matteotti ci lasciò quel 10 giugno 1924 in una Roma “aperta” alla censura pubblica.

Non sembra neanche tanto remota in effetti adesso, durante queste refrigeranti elezioni europee, l’idea che la politica non sia il solare diritto del singolo, ma il soffocante delitto dei singoli. Un’idea che eclissandola dalla sua reminiscenza machiavellica, risplende di recentissima attualità sull’inchiostro della stampa quotidiana.

Le numerosissime organizzazioni internazionali che dagli anni della Convenzione di Ginevra hanno deciso, allora per sola fortuita prevenzione, di collaborare per mediare e mantenere una pace già dichiarata dopo secoli di consunzione bellica, non avrebbero sperato nella obsoleta possibilità che la Corte Penale Internazionale pronunciasse mandati d’arresto a leader rappresentanti di Stato. A cento anni dunque dal ‘delitto Matteotti’ si può ancora ascoltare il suono del martelletto di una Corte giudicante i crimini politici di Stati come quello di Netanyahu che versano, a fronte della “vicenda Hamas”, in regimi totalitari. E non è l’unico suono angosciante quello del martelletto, se echeggiano intorno ai palazzi romani inni all’anacronia di questa sentenza.

Proprio in una di quelle piazze, un pomeriggio, davanti alla Camera dei Deputati, fu caricato in auto un uomo che aveva appena compiuto il gesto testamentario della nostra repubblica. L’onorevole Giacomo Matteotti era appena stato sottratto al mosaico della democrazia. Di lui ricompariranno qualche mese dopo le ossa del cadavere nella vicina Quartarella e sarà ormai il 16 agosto dello stesso anno. È risaputo, l’on. Matteotti aveva dichiarato pochi giorni prima del suo rapimento le nefandezze con cui il Partito Nazionale Fascista aveva pressato violentemente le elezioni del 6 aprile 1924 attraverso le “squadre d’azione” e ottenendo la maggioranza favorevole a instaurare poi un partito unico in Italia. Unico ma onnivoro della repubblica, come si rivelerà più tardi la dittatura, soltanto un anno dopo, quando il primo ministro Benito Mussolini si pronuncerà felicemente il “responsabile morale, politico e storico” della morte del suo avversario d’aula.  

La morte di Giacomo Matteotti segnò anche la morte della democrazia, o quanto meno la colpì come un tumore maligno che invischiatosi del tutto all’interno del corpo statale, produrrà ancora per molti anni a seguire emorragie dal cerebro della Repubblica. C’è però ai nostri giorni ancora il rischio che tutti questi anni intercorsi dalla dittatura mussoliniana al nostro presente possano essere dati per ‘scontati’ come scontata lo sia anche una consecutio temporum quasi progressiva alla democrazia. 

L’acquiescenza elettorale che sta colpendo piano piano i nostri sensi civici durante un tempo di pacifico silenzio, potrebbe persino incorrere nell’oscurantista pericolo oggi di concepire la democrazia come ovvia realtà sociale che ci spetta di diritto, e non come eroico trofeo di lotta per una realtà ideale. Realtà ch’era divenuta persino un sogno per i familiari delle vittime di via Rasella. 

Non si dimentichino le stragi di uomini che furono fatte per la stessa mano di amici connazionali che proprio in virtù di questo sogno quasi mazziniano, videro sollevarsi la polvere di una guerra civile che impedirà poi a molti di essi di vederne gli esiti. Si è anzi recentemente supposto che fu proprio la distopia cittadina di quell’ideale che stava sempre più invadendo le coscienze minoritarie e per la quale ciononostante i più sudditi del regime si battevano col sangue, a dare una solida e convinta base alla Costituzione “quarantottina”. 

Il principio cardine che guidava allora le resistenze italiane contro il regime era “lottare per credere”, e non per “avere”. Croce avrebbe parlato di «idea della morte per l’idea», ed è in realtà quanto accaduto con l’omicidio del giovane Matteotti. L’avversario ed ex compagno socialista di Mussolini aveva sì sentito la pressione ostile che attorno a lui si stava raccogliendo alla stessa maniera dei casi minatori che raccontava in Parlamento, quelli dei contadini che accerchiati da camionette nei loro casali venivano proscritti al voto. Ma in un tempo dove la cosa pubblica aveva perso il suo debole corpo elettorale, e veniva giorno per giorno deturpata della sua trasparenza, pensare la democrazia significava solo evocare una profezia: la morte.

Giacomo Matteotti ha iniziato l’Italia al rito della democrazia attraverso la profezia della sua fine, quasi a dire non solo che laddove c’è una autocrazia (come la dittatura) la democrazia finisce, quanto soprattutto che dove c’è l’Italia che parla lì può solo esistere il linguaggio democratico

Capire quindi appieno l’esempio, il paradigma che un precursore della fondazione della Repubblica quale l’on. Matteotti ha inciso sul marmo della libertà, implica una grande tela di interferenze da districare nel labirinto della storia. Se è vero che ogni verità storica è sincerabile solo asciugando la torrenziale fiumana del presente, il “delitto Matteotti” è l’alveo cronologico su cui poserà più tardi quel che gli sarà omologato come “caso Moro”. Quest’ultimo infatti prende il nome di “caso” proprio dal tentativo operato dalla storiografia contemporanea filosenatoria di dissimulare la recidiva affezione del “caso Matteotti” nell’organismo istituzionale italiano con la maschera apotropaica della parola “delitto”. 

A fugare le nubi che avvolgono la natura dell’omicidio Matteotti, occorre quindi dichiarare con tutta la stanchezza delle indagini giornalistiche e giudiziarie anche recenti che quello del giovane Giacomo, “Tempesta”, come lo chiamavano i suoi compagni di partito, non fu un semplice delitto, ma rimane un vero, anzi forse il primo vero «caso di Stato» italiano. La natura di questa improvvida scomparsa si compone della stessa mistione tra libertà intellettuale e potestà politica, «tra verità deterrente e veste decente», cioè degli stessi segreti di casta e di carta che creeranno il “caso Pasolini”. Soppressione più scomparsa oggi diremmo.

È sempre interessante allora notare una sfumatura generale che è propria della storia della nostra repubblica, e che ha conservato negli anni l’identica causalità, riaggiornando d’altra parte il genere del suo significato. Per ogni accadimento degno di scandalo pubblico che si è espresso dall’inizio della modernità preilluministica fino alla contemporaneità post-europea, all’interno di un emisfero come quello occidentale che ha conosciuto la cosiddetta ‘guerra del diritto’ proprio attraverso il suo ius bellicum, si è avvalsi sporadicamente (laddove sporadici sono stati quegli eventi), della parola “caso” come equivalente di publica species inquirenda, ossia indagine di “pubblica questione politica”

Era insomma un termine per indicare un evento di peculiare importanza pubblica, in quanto politica, ma soltanto indagabile dal suo stesso rango politico, in serbo del famoso segreto di stato. Un cambiamento questo che rispetto a quanto ad esempio intendeva il Senato romano nella pronuncia della parola casus sull’epilogo di Tiberio Gracco, ha magnetizzato una patina metonimica dal milieu urbano e dagli antefatti politici su un termine che voleva invece delineare la pura casualità degli eventi. 

E fu proprio così infatti quando Scipione Nasica insieme al corteo armato di cavalieri e ai senatori adunati al tempio di Fides aveva dato luogo alla strage di massa in cui fu assassinato Tiberio. Fu una strage di massa che attraverso la morte di un leader politico anticipatore di una grande riforma democratica, nella sacralità delle pubbliche istituzioni, segnò la morte della pace civile (pax urbis), ma anche l’auge della res publica

Paradossalmente dove sembrava finire la speranza democratica ed egualitaria del tribunato con la morte dei Gracchi, lì, proprio perché il delitto dovette sembrare un caso quando già se n’era scoperta la natura di “avvento”, nella pubblicistica ‘traduzione’ che il senato, cioè il rango politico per eccellenza, ne fece come “evento”, cominciò la guerra sociale per la repubblica. Da qui s’ebbe la più alta cognizione della res publica romana, dal momento in cui un avvento riconosciuto così importante e centrale nella storia politica di una città fu tradotto in evento dalle massime istituzioni della stessa città, grazie all’attributo del caso. 

Lo si ricordi però, quella “casualità” simulata, casus in causa diremmo opportunamente, da un lato servirà certamente da accredito a Livio Druso per la legge tribunizia del 92 a.C sulla giuria equestre, dall’altro però, ancor prima, farà introdurre a Mario la grande riforma del 107 a.C. Quella mariana è da leggersi come l’attestazione certa e prolettica della globulare concentricità della goccia di democrazia che contaminerà ossessivamente il sangue che Polibio chiama mixtys (misto) della repubblica.

Quel che avvenne ai Gracchi due millenni fa era stato un atto antidemocratico ma sanzionatorio di un regime che venendo allo scoperto della sua vera entità monopartitica doveva assumersi, e assorbire, sulle toghe del Senato, ogni responsabilità sociale che evitasse qualsiasi forma di rivoluzione o destamento civile sull’odore di una ferita aperta. E in quanto suprema lex quella con cui le istituzioni avevano agito contro Gracco per “salvare” la repubblica, all’estremo rimedio della strage pubblica non dovevano seguire altre stragi o disordini che in qualche modo non contenessero la sacra autorità del collegio augurale.

Ecco che l’assassinio di Tiberio Gracco non sarà più isolato in un arcaico 133 a.C, quasi fuori dalla storia e lontano anni luce dal caso Matteotti. Entrambi invece si scoprono vicini come non mai, e divenendo da un caso di responsabilità pubblica (caso dei Gracchi) a un caso di censura pubblica (caso Matteotti), finisce dunque quest’ultimo, in un tempo in cui lo scettro politico riprende ad essere popolare (e populista) come nel regime fascista, con l’essere soprattutto un caso di “censoria pubblicità politica”.

Ma allora questa cosa pubblica, l’ordinamento costituzionale che abbiamo ereditato col nome di Repubblica, cosa è veramente? La risposta più facile sarebbe dire cosa essa non è, ma non servirebbe tracciare una lastra negativa di uno scheletro bifronte. Se osservassimo invece che la prima vera transizione avvenne proprio all’interno della struttura repubblicana romana, ovvero dal passaggio del dictator rei publicae servandae al princeps restitutor rei publicae, dalla carica vicariale del dittatore custode della repubblica, quale fu Silla, a quella statale del principe alfiere della repubblica, quale fu Ottaviano, giungiamo a una fase successiva più elaborata che fa perdere all’idea di “repubblica” la sua veste “collegiale” completamente col modello imperiale napoleonico. È noto che sarà su questo modello politico, di una repubblica dalle fondamenta quasi democratiche, ma dalla faccia di una graziosa sorella complice della tirannia popolare, che Mussolini costruì il suo programma elettorale e di ascesa al potere dittatoriale.

Ci sembra netta l’evidenza a tal punto di tutta la forza semiotica e ideologica che la storia della repubblica ha posseduto con chi ne è entrato in stretto contatto morale anche dopo secoli intercorsi di mezzo. La morte di Giacomo Matteotti è stata proprio la conseguenza dell’ambiguità scivolosa di questa cosa pubblica che è giunta a un’Italia in un punto temporale in cui se doveva esserci una riforma popolare, questa doveva ricostruire, “rinnovare” la storia strappandola dalla sua originale costituzione e stravolgere del tutto il ruolo delle minoranze come pulvinari per un sacro atto di maestà patriottica convogliato in un’unica figura legislativa. 

È questo il fascino della repubblica che è avvertibile ancora oggi e che ha generato la duplice sorte del delitto Matteotti e del ventennio di Mussolini, come se fossero due facce di una stessa medaglia. Due facce però che ormai avremmo imparato a riconoscere in un giorno in cui celebriamo il centesimo anniversario non solo dalla morte di Matteotti, ma anche dalla fine della censura contro la verità.

Verità per cui il giovane deputato si è sacrificato per smascherare il segreto di quel fascino e per la quale se non si navigano a fondo le carte della Costituzione che abbiamo ereditato, oggi rischieremmo ancora di irretirci nel fascino censorio di una repubblica che incornicia un nuovo principato, o un cosiddetto premierato.

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2000, Bari, Classicista e storico dell’arte. Redattore di Politica interna. Attualmente si occupa di Etruscologia e Diritto Romano a Perugia, dove conduce indagini sperimentali in Archeologia Classica. Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A novembre 2023, ha curato il Convegno “L’ombra del doppio: la dicotomia nella poiesis” nella città di Lavello.

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