Addio a Daniele Del Giudice, l’erede di Italo Calvino

Dopo la recente scomparsa di Roberto Calasso, sopraggiunta lo scorso 28 luglio a seguito di una lunga malattia, oggi il mondo della letteratura piange un’altra mesta perdita: quella di Daniele Del Giudice, fine scrittore, critico, giornalista e consulente editoriale, anch’egli vittima di un male che lo affliggeva da anni e che, alla fine, ha prevalso inesorabilmente sulla sua vita. La notizia giunge poche ore fa, e ne danno comunicazione – oltre alla famiglia – gli amici e i colleghi di Einaudi, la casa editrice cui Del Giudice aveva affidato la sua fiducia in tutti gli anni della sua decennale e proficua carriera letteraria. Con la casa editrice torinese, infatti, lo scrittore romano – morto a Venezia all’età di 72 anni -, ha dato vita ai suoi più grandi successi letterari: i cinque romanzi della carriera, partendo da “Lo stadio di Wimbledon” (1983), dedicato al compianto Roberto “Bobi” Bazlen – al quale anche lo stesso Calasso ha dedicato uno dei suoi ultimi lavori (Bobi, Adelphi, 2021) -, passando per “Atlante occidentale” (1985), “Nel museo di Reims” (1988), “Orizzonte mobile” (2009), fino a giungere all’anno 2013, quando esce “In questa luce”, la sua ultima fatica letteraria in prosa. Sempre con Einaudi, Del Giudice ha pubblicato anche tre raccolte di racconti e un’opera teatrale, divenendo titolare di un immenso patrimonio culturale e artistico, che lo ha designato come “uno degli scrittori più importanti della letteratura italiana contemporanea”. Il Ministro della Cultura Dario Franceschini, riferendosi alla scomparsa di Del Giudice, parla di “una grande perdita per la cultura italiana […] è veramente una mancanza enorme”.

Lo scrittore ha ottenuto numerosi riconoscimenti, fra i quali il Premio Viareggio Opera Prima nel 1983, il Premio letterario Giovanni Comisso nel 1985, il Premio Bagutta nel 1995 ed è stato selezionato, per ben due volte, nel 1994 e nel 1997, per il Premio Campiello. Proprio sabato prossimo, a Venezia – città che aveva scelto per trascorrere gli anni della pensione -, avrebbe finalmente ritirato il Premio Campiello alla carriera, assegnatogli lo scorso 27 luglio. Walter Veltroni, riferendosi all’onorificenza, ha dichiarato: “Non è e non sarà un premio alla memoria, ma un riconoscimento attuale per le storie e le parole che nei suoi testi ha scelto, per la loro qualità e per le emozioni che ha offerto ai suoi lettori”. La Fondazione Campiello, ad ogni modo, assicura che il riconoscimento gli verrà conferito ugualmente, per onorare una carriera avviata quasi quarant’anni fa con il suo primo romanzo – il sopracitato “Lo stadio di Wimbledon” -, grazie all’intercessione di Italo Calvino.

Era stato proprio quest’ultimo, infatti, a scoprire un poco più che trentenne Del Giudice, proprio nello stesso anno in cui usciva, sempre per Einaudi, l’enigmatico Palomar. Calvino, non è un segreto, ha sempre tenuto un profilo basso nei confronti dei nuovi scrittori emergenti che si affacciavano sul panorama letterario, ma per Del Giudice si sbilanciò notevolmente, definendo il suo lavoro “un nuovo sistema di coordinate”. Lo scrittore romano, dal canto suo, non si è mai incasellato in una singola e determinata corrente letteraria, bensì ha scelto di assumere ruoli sempre mutevoli e di interagire nei più disparati contesti culturali. Forse è addirittura riduttivo limitarlo a mero erede di Calvino, con il quale sicuramente condivideva un certo fervore civile. Fervore che lo ha spinto, nel 2009, a scrivere del disastro di Ustica, una delle pagine più buie della storia italiana degli anni Ottanta. Ma con Calvino condivideva anche una delle sue più grandi paure, quella di non riuscire più a immaginare e vedere nulla. Una sorta di cecità verso il mondo, descritta anche nel suo romanzo forse più commovente, “Il Museo di Reims”, il cui incipit è il seguente: “È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura”. Incomincia con queste parole il racconto di Barnaba, un giovane ex ufficiale di Marina che a causa di una patologia trascurata sta perdendo gradualmente la vista. L’uomo ha così deciso di sfruttare il tempo che gli rimane per saldare nella sua memoria alcuni capolavori dell’arte. Un insegnamento non indifferente, quello che Del Giudice vuole trasmetterci. Ciò che possiamo fare oggi per onorare la sua memoria, dunque, è di evitare di accorgerci dell’immenso patrimonio culturale di cui disponiamo solo nel momento in cui stiamo diventando ciechi, bensì di disporne e di rispettarlo con una consapevolezza ancora tutta nuova.

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