C’è stato un frangente, a cavallo degli anni Duemila, in cui sembrava che la liberal-democrazia sarebbe diventata egemone. Era convinzione diffusa che, dopo la caduta del Muro di Berlino, la supremazia dell’impianto ideale dell’Occidente avrebbe lentamente influenzato anche Paesi non democratici e regimi illiberali, destinati a una sorta di ‘mutazione genetica’. Questo periodo di ottimismo – con il senno di poi caricato di eccessive speranze – è stato contraddistinto dal ruolo guida degli Stati Uniti, l’unica superpotenza uscita vincitrice dopo la Guerra Fredda.
La ‘Fine della Storia’, per citare il titolo del celebre saggio di Fukuyama, a dire la verità, tuttavia, non è arrivata. Anzi, da lì a poco sarebbero cominciate una serie di crisi che hanno messo a dura prova il mondo libero. È bene soffermarsi sui risvolti culturali che quel frangente ha imposto nelle democrazie occidentali. Il liberalismo ha trovato terreno fertile attraverso numerosi ‘incubatori’ di idee sia negli Stati Uniti e in Europa Centro-Settentrionale, sia in Paesi dove quelle idee sono rimaste minoritarie dal punto di vista politico, come in Italia. Negli Usa, l’American Enterprise Institute e la Brookings Institution erano (e restano) tra i ‘pensatoi’ più ascoltati dagli inquilini della Casa Bianca. In Spagna nel 2002 nacque FAES, che aveva riunito cinque piccole fondazioni vicine al Partido Popular. Un anno dopo, in Italia, fu la volta della Fondazione Magna Carta e dell’Istituto Bruno Leoni.
Parliamo di realtà che hanno promosso il dibattito pubblico anche tra punti di vista molto distanti. Nell’epoca della polarizzazione, ripeterlo una volta di più non guasta: il pluralismo può essere più di una parola vuota. “In una democrazia matura i compiti di un think tank sono quelli di creare idee, contribuire alla formazione di classe dirigente e, all’occorrenza, provare a immettere entrambe nell’arena principale della politica”, spiega Gaetano Quagliariello, Presidente di Magna Carta. Si può dire che i think tank abbiano avuto un ruolo istituzionale centrale nel mondo occidentale, seppur lontano dai riflettori del grande pubblico. Think tank e fondazioni di area liberale nel corso degli anni hanno fatto network rafforzando i loro legami.
Scorrendo le foto nel libro dedicato ai Vent’anni di Magna Carta, si comprende quanto sono state fitte queste relazioni, come nel caso delle Relazioni Transatlantiche organizzate tra Roma e Washington dalla fondazione italiana con l’AEI, presenti relatori del calibro di John Bolton, oppure la riflessione sul tema del multiculturalismo che hanno coinvolto FAES e Magna Carta. Erano tempi diversi, certo, in cui la cultura politica aveva un peso maggiore di oggi. Al di là delle idee specifiche, ciò che resta è il modello con cui si sono legate policy e politics, centri studi e politica istituzionale.
Con la riflessione che si è imposta sugli esiti della Guerra in Iraq, la Brexit e le difficoltà crescenti nel processo di integrazione europea, le crisi economiche del 2008 e del 2011, si è verificato un progressivo arretramento della popolarità delle idee liberali. Nel frattempo era arrivato il populismo. Syriza e Alba Dorata in Grecia, Podemos in Spagna, il Movimento 5 Stelle e la Lega in Italia, La France Insoumise e il Front National in Francia, Ukip nel Regno Unito. L’elenco potrebbe continuare a lungo e coinvolgere, com’è evidente, partiti molto diversi tra loro, si tratta di formazioni di destra ma altrettante di sinistra. Contemporaneamente all’ascesa di questi partiti in Europa, la Cina è cresciuta esponenzialmente mentre la Russia di Putin è tornata ad avere mire imperiali: Abkhazia, Ossezia, Crimea e Cecenia ne sono state una prova inconfutabile ben prima dell’invasione del febbraio 2022.
Siamo transitati da un mondo unipolare, con gli Stati Uniti al centro, a uno multipolare. Il consolidamento del blocco dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), a cui dovrebbero aggiungersi Iran e Argentina, ne è una dimostrazione ulteriore. Molti dei partiti che in Occidente vengono classificati come populisti mettevano almeno parzialmente in discussione l’atlantismo prendendo a modello economico e culturale proprio alcuni dei Paesi emergenti. Allo stesso tempo, la presidenza Trump ha allontanato gli Stati Uniti dall’Unione Europea e ha adottato una politica estera tendenzialmente isolazionista. Le conseguenze di questa fase che potremmo definire di ‘riflusso’ si sono riversate anche sui think tank di matrice liberale che hanno perso quella centralità testimoniata nella fase storica precedente.
“La deriva populista – argomenta Quagliariello – ha visto come fumo negli occhi il pensiero astratto, la competenza e le classi dirigenti nelle quali ha individuato il germe del privilegio. Si può dire, quindi, che abbia detestato ciò che più caratterizzava i think tank, che non solo sono improvvisamente passati di moda ma sono stati anche delegittimati concettualmente e talvolta ostacolati dal punto di vista legislativo. Questo è il caso specifico dell’Italia e dello Spazzacorrotti”.
Tornando al quadro internazionale, l’invasione dell’Ucraina per mano della Russia di Putin ha nuovamente cambiato le carte in tavola. L’imperialismo di Mosca ha ricompattato l’Unione Europea e gli Stati Uniti, rendendo però plasticamente un fenomeno non trascurabile. Ci sono una serie di Paesi che, pur non aderendo al Patto Atlantico o non trovandosi geograficamente ad ovest del mondo, hanno adottato uno stile di vita che si può definire occidentale. Non si pensi solo a Giappone, Australia e Corea del Sud, come hanno confermato gli accordi con la NATO al recente vertice di Vilnius, ma anche alle manifestazioni europeiste della Georgia e alla postura internazionale della Moldavia. Al di là delle sirene distopicamente pacifiste è tornata a crescere la consapevolezza dell’importanza di vivere in una democrazia liberale. Potremmo dire, operando una forzatura semantica, che siamo passati da una fase in cui gli Stati Uniti tentavano di esportare la democrazia in Medio Oriente a una in cui è l’Ucraina, in virtù della propria resistenza nazionale, a ridare un senso allo spirito democratico in Occidente.
Tuttavia, visto che almeno per il momento in Europa non sembra emergere un nuovo vento politico liberale, se non per alcune rare eccezioni come l’Estonia di Kaja Kallas, è bene fare una riflessione sullo spazio che il nuovo ordine mondiale concede al rilancio dei think tank. Che ruolo potranno svolgere think tank e fondazioni nei prossimi anni? Simili istituzioni possono tornare ad essere centrali nel policy-making e nella formazione della classe dirigente? È auspicabile che sia così, tanto più che, se davvero si aprirà una fase post-populista, bisognerà tornare, per dirla semplicemente, a studiare.