Colleferro: la sirena scandiva i ritmi di una comunità; oggi è un grido di allarme

Anche noi, come loro, siamo stati ragazzi.

Come loro, tutte le mattine andavo a scuola. Io, a piedi dai Palazzi Morandiani (come oggi vi piace definirli). Dopo quasi 15 minuti di camminata, arrivavo all’Istituto tecnico Cannizzaro e lì, ai cancelli, mi incontravo con i miei compagni.

C’erano persone di tutte le estrazioni sociali e la scuola, oltre ad essere palestra di vita, era lo specchio della società. Lì potevi incontrare il bullo, l’appassionato di auto o di musica, il super sportivo, quello che a volte si faceva lo spinello; c’erano fascisti, socialisti oppure, comunisti, come ero io.

L’avere tre scuole superiori non era un caso. A Colleferro c’era il Liceo Scientifico, l’istituto tecnico industriale (specializzato nei settori della chimica, della meccanica e dell’elettronica) e poi l’Istituto tecnico professionale che avviava i ragazzi alla professione di tornitore o elettricista.

Erano gli anni ’80.

Come scrive Alessandra Papitto nel suo libro “All’ombra della sirena”, noi eravamo quelli educati al ritmo della B.P.D., un richiamo che scandiva le ore della giornata ma anche un suono che richiamava tutti all’impegno e al senso di comunità. 

La mattina andavo a scuola ma nel pomeriggio mi dedicavo ad altro. Non c’era spazio per il disimpegno. Tutti, in base ai propri interessi, ci dedicavamo a qualcosa insieme agli altri.

Io – ad esempio – ero un movimentista. Volevo cambiare il mondo, mi battevo per la Palestina libera, per il No al Nucleare, per contrastare l’uso di eroina; la cocaina era una cosa per ricchi.  

Ci sentivamo tutti parte di una collettività, difficilmente si agiva in solitaria. Era bello stare insieme e crescere insieme. Mi ricordo che giocavo a Pallavolo ovunque, dalla Palestra delle scuole medie, al campo dello Suore Salesiane (e aver giocato anche un minuto con Mauro Castaldi è stato un grande onore). E poi ancora a calcetto, a Ping Pong dalle Pie Operaie, oppure al campo da basket di Maurizio Natali.

Insomma, eravamo ragazzi normali, a volte ingenui, a volte sfrontati che vivevamo il nostro tempo a pieno e ci divertivamo a costruire qualcosa insieme.

La sera mi ritrovavo con i miei amici dello Sbrago (le scalette dell’Ipsia), ma c’erano anche quelli che si incontravano al Bar Impero, quelli dei giardinetti, del Metro Pizza e, infine, quelli dello scalo.

Il conflitto sociale era fatto di sguardi tra chi portava i camperos e chi indossava i fray, tra chi vestiva Moncler e chi, invece, un piumone comprato al mercato. Il nostro confronto era se preferivi i Duran Duran o gli Spandau Ballet, oppure, se eri un inguaribile metallaro.

Eravamo ragazzi. Avere il motorino era un sogno e, saperlo guidare come Billi, un’impresa impossibile. A volte – anche fra noi – poteva venir fuori una lite verbale, un insulto o, perché no, un ceffone. Ma c’era un limite a tutto perché il giorno dopo avremmo sentito nuovamente quella sirena suonare.

In quegli anni la vita sociale non mancava. A Colleferro c’erano oratori, sedi di partito, luoghi gratuiti dove fare attività sportiva, c’era la pro-loco, gli scout, il gruppo archeologico, la lega ambiente; le realtà associative non mancavano, così come il teatro, le mostre di pittura. A Colleferro si organizzavano la Festa de l’Unità, quella dell’Amicizia e, addirittura, quella dell’Artigianato. C’era il raduno dei gruppi musicali dove si esibiva chiunque: dal metal alla musica leggera; il tutto regolato dal ritmo della sirena della BPD.

La nostra generazione aveva poco ma aveva tutto e, anche se super impegnata, aveva tempo, quel tempo regolato dal suono della sirena.

Oggi quel suono c’è sempre ma non lo sente più nessuno. Quel richiamo non scandisce più il ritmo di una comunità, non fa più tornare alla mente l’immagine del papà che torna da lavoro con il sacchetto del pranzo in mano.

Quella sirena era uno spartito che suonava alle 6.00, alle 7.30, alle 12.00, alle 14.00 e alle 16.30, un ritmo che dava un senso al nostro stare insieme ma anche un simbolo che suscitava rispetto, creava armonia e ci dava la forza di andare avanti. 

Oggi l’indifferenza ci ha resi orfani di quel suono. Stiamo perdendo il senso delle cose, il valore più profondo della vita.

Quel ragazzo pestato a Colleferro qualche giorno fa poteva essere mio figlio, ma – cosa ancora più drammatica – potevano essere miei figli anche quelli che l’hanno pestato.

Mi chiedo quindi dove abbiamo sbagliato? Perché siamo arrivati a così tanto? Di una cosa sono certo. In questo momento non abbiamo bisogno di falsi moralisti né di maestrini con la penna rossa. 

Far parte di una comunità significa indirizzarla e non giudicarla perché, anche noi che abbiamo oggi tutti tra i 45 e i 60 anni, con figli di 18-30 anni, non siamo immuni dalla pandemia dell’indifferenza.

Forse qualcuno cercherà di strumentalizzare questa mia riflessione, ma credetemi, non vuol essere nessun “ritorno al futuro” ma non voglio nemmeno rimanere indifferente.

So bene che il mondo va avanti e sarebbe irrealistico pensare di tornare ad un mondo che non esiste più. Forse però dovremmo interrogarci come comunità e chiederci perchè a quelle palestre e a quei luoghi che descrivevo prima, i giovani preferiscono rinchiudersi o, spesso nascondersi nei social network, nella solitudine di una playstation o, in mondi paralleli che creano solo solitudine e marginalità sociale.

La comunità – fatta di sguardi e di relazioni umane – ti dava la possibilità di crescere, di diventare uomo, di contribuire al benessere collettivo. Quella comunità è oggi diventata “community”, dove ad affermarsi è il più forte, colui che prende più like, colui che risponde a certi modelli omologanti, che ha bisogno di affermarsi con l’esibizionismo. Noi eravamo liberi di pensare e di sviluppare la nostra personalità insieme agli altri. Di fronte a quello che è successo nella nostra città non possiamo più fare finta di niente ma neanche trasformarci in boia o carnefici.

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