Sono qui per dire una cosa semplice e tremenda: Delitto e castigo non si legge. Ti legge. Ti entra dentro e si annida nelle viscere, non ti molla più. Ti tormenta come’è tormentato Raskol’nikov, l’uomo scisso, l’uomo che sbaglia ma a cui non puoi fare a meno di dare ragione.
Alessandro Piperno — in dialogo con Paolo Nori — ha esordito come chi tocca una reliquia: “Anche chi non l’ha mai letto, Delitto e castigo lo conosce. È uno di quei romanzi che ti cambiano la vita… anche se non li hai letti”. Ed è vero, perché le ragioni del peccato si annidano in tutti, anche nei più santi, in coloro che c’è la mettono tutta per fare meglio. Perché Raskol’nikov è in ognuno di noi. È il ragazzo che sogna di essere un Napoleone e finisce per uccidere una vecchia. È il ragazzo che non si pente, anche quando dovrebbe. È il ragazzo che vuole fare del bene con un delitto, e finisce a marcire nella colpa.
Nori, Delitto e castigo, l’ha letto per la prima volta a 15 anni. Età cruciale. L’età in cui si crede di essere immortali. Da quel momento, ha ripreso il libro poche altre volte, quasi con la paura che, come molte altre cose nella vita, il suo stesso sguardo potesse tradire; che in sordina avesse smesso di essere straordinario. Eppure non è stato così. Fëdor si conferma Fëdor, ogni volta, anche alla millesima lettura — sempre tremante, febbrile, sempre nuovo — capace già di ogni altro di aprirti la testa. E oggi, oggi che Nori lo rilegge da adulto, confessa di aver realizzato una cosa: Raskol’nikov non si pente. Non davvero. Si pente di aver fallito, non di aver ucciso. “È dispiaciuto, non pentito”, dice il russista, quasi sorpreso. La frase, per chi ha finito per romanticizzare il romanzo, è un po’ una pugnalata. Perché è vero. Perché è terribilmente umano. Perché il crimine, in Dostoevskij, è una questione intima, sporca, impastata con l’orgoglio, con gli umori del corpo e dello spirito, con la vergogna. Il pentimento, quando arriva, è quasi sempre un calcolo.
Piperno parla di architettura narrativa. Dice: “Dostoevskij scrive un giallo in cui sai fin dall’inizio chi è il colpevole, ma che non puoi fare a meno di continuare a leggere. Perché il mistero non è chi ha ucciso. Il mistero è perché chi ha ucciso non riesce a salvarsi, a scamparla”. Delitto e castigo, infatti, non è un romanzo sul delitto. È un romanzo sull’inferno della mente.
Poi Piperno fa un gesto con la mano, come chi si scusa per quello che sta per dire. Parla del senso di colpa. Ma non di quello bigotto, pulito, ordinato. No. Di quello sporco. Quello che ti precede. Quello che senti prima ancora di fare qualcosa di male. Fa un esempio semplice, quasi comico. “Parcheggio sulle strisce blu. Tutto regolare. Ma poi sento un clacson e penso: sarà la mia macchina?” Ecco. Forse è semplicemente questa la colpa. Colpa senza peccato. Colpa che nasce da dentro. Come un veleno.
È la colpa che disseppellisce Nori, riferendosi a una delle domande chiave che sorgono quando si legge Delitto e castigo: “Ma io quanto valgo? Sono come un insetto o come Napoleone?”
Dostoevskij da qualche parte ride, nel suo aldilà. Perché è sempre questa la domanda. Chi siamo, noi? Chi ci crediamo di essere? E chi ci autorizza a pensarlo?
Forse siamo come Marmeladov. L’ubriaco. Il padre che si fa mantenere dalla figlia prostituta. L’uomo che urla: “Lasciate che io soffra!” E che ci gode, nel dolore. Che ci si rotola dentro come in un letto caldo. Nori lo racconta con gli occhi lucidi, lo riporta alla vita per chi lo ascolta. Marmeladov non è solo un personaggio. È una parte di noi. Quella che vuole essere punita. Quella che non cerca redenzione, ma solo castigo. Quella che dice: non perdonatemi. Non merito. Eppure…
Persino Porfirij, il giudice, l’uomo che capisce tutto e non dice niente, è fatto della stessa materia umana e fallace. Lui che forse è affascinato da Raskol’nikov perché gli assomiglia. Perché lo vede. Lo vede davvero. E lo protegge, in un certo senso. Lo aspetta. Non lo incastra. Lo accompagna verso la confessione.
Ma lo ama davvero? Chissà che anche lui nella sua vita non abbia sentito la tentazione. Che anche lui si sia chiesto se vale come un Napoleone o come un insetto.
L’atmosfera è quasi mistica in sala. Stipata una stanza piena di gente che non respira, per paura di perdere anche una sola parola. E la verità è qui, a galleggiare nell’aria: Delitto e castigo è una trappola. Ti ci infili pensando che sia un libro. Ne esci chiedendoti: e se avesse ragione Dostoevskij? Se la vera tragedia dell’uomo fosse proprio questa: sapere cosa è giusto, e non riuscire a farlo?
Me lo sono chiesta anch’io; seduta in fondo, tra decine di teste attente e immobili, mentre Alessandro Piperno e Paolo Nori provavano a entrare in quell’abisso. Piperno, elegante e feroce come un chirurgo della parola. Nori, col suo tono da poeta slavo reincarnato, con la passione addosso come una seconda pelle.
Hanno detto che Delitto e castigo è un libro che ti cambia la vita. E hanno ragione. Ma la verità è che non ti cambia: ti smaschera. Ti dice chi sei quando credi di essere nel giusto. Ti mostra lo specchio, e nello specchio c’è Raskol’nikov. L’assassino per idea. Il giovane uomo che uccide non per rabbia, non per vendetta, ma per teoria. Per ideologia. Per filosofia. Uccide una vecchia usuraia e poi un’innocente. Ma il sangue, si sa, non si ferma dove inizia. La colpa, nemmeno.
E allora ti chiedi: ma Dostoevskij, da dove tirava fuori questa verità nuda, violenta, indigeribile? La tirava fuori dalla propria carne, e dal proprio cuore. Perché Delitto e castigo non è solo una serie di frasi cervellotiche, rese balbuzienti dalla febbre. È un’autopsia. E l’autopsia non è della società russa, sarebbe riduttivo. È del suo stesso autore.
Fëdor Dostoevskij ha conosciuto la galera. I ceppi. Il freddo siberiano che ti mangia le ossa. È stato condannato a morte. Ha atteso l’esecuzione con il cappio in vista. Poi, all’ultimo, è stato graziato. Ha scritto lettere alla madre. “Ho paura” vergava su carta. Ma poi aggiungeva: “Tornerò più uomo.” E ha mantenuto la parola. Ha conosciuto la miseria. I debiti. Il gioco d’azzardo che lo ha rovinato. Giocava come un dannato, perché era un dannato. Perché ci sono uomini che non cercano la pace, ma il limite. La rovina. La roulette non era un vizio. Era un tentativo disperato di farsi male. E lei, Anna, la sua seconda moglie, lo sapeva.
Anna Grigor’evna. Vent’anni meno di lui. Una ragazzina quando lo conobbe. Gli fece da stenografa e salvò il romanzo Il giocatore, ma soprattutto gli salvò l’anima prendendola fra le sue mani ancora di bambina, innocenti, vuote forse ma piene di ideali. Gli stette accanto come una madre, come un’amante, come un angelo bislacco ma deciso. Lo seguì ovunque. Lo sopportò e supportò quando scappava a Baden-Baden a perdere tutto. Quando mentiva, piangeva, giurava che avrebbe smesso. Alla fine non smise mai.
Ma Anna non era Sonja. Sonja era l’altra donna. La donna di Delitto e castigo. La prostituta bambina. La santa nella melma. Quella che legge il Vangelo a Raskol’nikov e si infiamma di luce. Quella che lo guarda e lo ama nonostante tutto. Nonostante abbia ucciso. Nonostante lui non creda in nulla. Sonja non discute. Sonja crede. Crede nel dolore, nella redenzione, nell’amore che non giudica. Sonja non è Anna, ma la ricorda.
E allora capisci perché Sonja non è solo un personaggio. È un archetipo. È la Russia stessa, forse. O forse è Dio. Èl’amore che non pretende giustizia, ma si fa giustizia da solo, con la mitezza, con la pazienza, con sguardo fermo.
Dostoevskij amava i suoi personaggi più di se stesso per questo. Perché gli ricordavano la vita, le persone che aveva avuto la fortuna e la sfortuna di incontrare. Li amava così tanto da concedergli di soffrire.
Nori ha ragione quando dice che “Dostoevskij non salva nessuno”. Nemmeno quelli che ama. Nemmeno Sonja. Nemmeno Raskol’nikov. Nemmeno Anna. Li lascia marcire nel dubbio, nel dolore, nella malattia. Ma li ama, come si ama qualcosa di proprio. Come si ama un figlio malato, uno che non guarisce ma ti somiglia.
E allora la morale della storia — sempre che una morale la si voglia trovare — è che forse Delitto e castigo non è nemmeno un libro sulla colpa. È un libro sulla compassione. Non quella che consola, ma quella che ti inchioda. Quella folle, senza ragione. Quella che ti obbliga a guardare chi sei davvero.
Alla fine dell’incontro, ci si chiede se oggi si può ancora scrivere un romanzo così. Piperno sorride. Nori scuote la testa. Sembra che abbiano intuito la domanda silenziosa del pubblico, un po’ ammutolito, un po’ titubante.
Probabilmente no, non si può. Ma si può ancora leggerlo. E forse si deve. Per ricordarsi che la letteratura non è evasione. È immersione. Non è intrattenimento. È tormento.
Uscendo dal Salone, viene da pensare ancora e soltanto a Dostoevskij. A quel vecchio epilettico, ossessionato da Dio e dal male. A quell’uomo che si inginocchiava davanti alla miseria, come davanti a un altare.
Io ho pensato a Raskol’nikov., invece. All’idea che forse non c’è salvezza per chi ha ucciso per superbia. Ma c’è uno sguardo. Uno solo. Lo sguardo di Sonja. Che non perdona, ma resta.
E allora ho capito che in questo libro, in questo inferno, c’è nascosta una preghiera, sì. Ma una preghiera che brucia.