“Il grande caldo”: la sincerità a garanzia dell’opera d’arte

Qualche giorno fa, ho avuto il piacere di svolgere una delle interviste più divertenti che abbia fatto fino ad ora. Partendo da sole quattro domande, mi sono ritrovata presto immersa in una discussione con gli intervistati sul valore dell’arte e se questa debba avere o meno una morale. Misoginia, bestemmie, giovinezza e spontaneità:  sono tutti temi che sono emersi con leggerezza (ma mai scontatezza), ragionando sui diversi aspetti della vita sociale e morale che solo in parte conosciamo e che, nell’ambito di questa vivace discussione, abbiamo cercato di collocare a seconda di visioni peculiari e sempre diverse, senza tuttavia imporle come dogma. È stata una chiacchierata illuminante, inframmezzata da risate, riflessioni e confronti; in fondo, si tratta di un progetto ideato da un gruppo di amici, ognuno con la propria personalità, e che quindi, in quanto tale, ha avuto impatti e significati diversi per ognuno di loro.

Ma andiamo con ordine.

Il 27 maggio, al Monk, un locale di Roma Est, si è svolta la prima (ufficiosa) del film Il grande caldo, realizzato nove anni fa da un gruppo di ventenni senza alcuna esperienza pregressa nel mondo del cinema, alcuna casa di produzione alle spalle o mezzi tecnici professionali.

Il film è di Dan Bensadoun, Luigi Caggiano, Marcello Enea Newman, Daniele Tinti, nato in una torrida estate romana, un po’ come questa. La trama è  semplice, lineare, animata da personaggi realistici, immersi in una ambientazione capitolina.

È uno spaccato di vita quotidiana di alcuni amici che si ritrovano a Roma, in estate, senza un’idea precisa di cosa fare delle proprie giornate; Una situazione che viene capovolta quando il gruppo viene coinvolto da una conoscente nella creazione di un film per la scuola di cinema da lei frequentata, cosa che darà finalmente uno scopo al loro agosto spento e privo di programmi. Questa è la storia di fondo, sopra alla quale troviamo una rappresentazione perfetta delle dinamiche instaurate dai classici ventenni che passano le serate al bar, cercando il  coraggio che ancora non hanno avuto la forza di tirare fuori, forse perché del tutto inseriti nella dinamica della propria età: quando c’è ancora tutto il tempo del mondo e qualsiasi cosa può essere rimandata. Un personaggio in particolare, tuttavia, emerge in modo diverso, ponendosi in contrasto con i coetanei. Ma questo lo scoprirete vedendo il film.

Essendo un’amante della comicità di Tinti, accanita fan del suo podcast Tintoria e avendo apprezzato enormemente il film, ho deciso di fare a loro – Dan e Marcello – qualche domanda, in occasione della prossima proiezione nella capitale, che avverrà il 7 luglio.

La prima domanda riguarda gli inizi. L’impulso ad esprimersi era sicuramente forte – non è da tutti portare a termine un film a vent’anni – e c’era chiaramente un bisogno di fondo. È stato soddisfatto? Il film è servito a un qualche scopo? C’era già la consapevolezza di non farlo uscire? Aggiungo che mi ha ricordato molto Fino a qui tutto bene, di Roan Johnson, ambientato a Pisa, in un appartamento di ragazzi fuori sede nella loro ultima estate da universitari.

È un altro grande caldo – rispondono subito, mettendosi a ridere –  il terzo di cui sentiamo parlare. Gli altri due sono Filmella e Paris, Dabar, che a noi sono piaciuti molto.

Daniele: Direi che non ha soddisfatto il bisogno, ma quale era poi? Sicuramente io avevo voglia di esprimermi. Tuttavia, non so se il film fosse il modo in cui lo avrei fatto, e non so se abbia soddisfatto quell’esigenza espressiva, anche se, senza dubbio, l’ha stimolata e toccata. Posso rispondere per tutti dicendo che no, non è nato con l’idea di non farlo uscire subito.

Dan: Però neanche con l’idea di farlo uscire. Non avevamo un’idea chiara di cosa ne avremmo fatto.

Marcello: Esatto. Apparteneva alla mentalità di come facevamo le cose all’epoca, ovvero pensare innanzitutto a farle, e solo dopo alla distribuzione. Il film era coerente con questa visione, anche perché non credevamo di poter avere un pubblico. L’idea di poter parlare a persone fuori dalle nostre cerchie è nata, nel nostro giro, solo quando alcuni di noi sono diventati famosi (vedi Niccolò Contessa, Calcutta, Tommaso Paradiso). Anche noi eravamo parte di quel mondo di musicisti, in un periodo di forte necessità di espressione. 

Per quanto riguarda l’altra domanda, per me non esiste niente di soddisfacente, c’è sempre qualcos’altro da fare e da dire. Però, forse, un piccolo bisogno c’era, ed era quello di rivelarsi e mostrare delle cose vere, reali.

Dan: Per me è stata un’esperienza formativa e importante; io studiavo cinema e questo film è stato d’impatto sul mio percorso, nonostante fossimo una troupe indefinita, con più autori e più opinioni. Questa dinamica poi l’ho sperimentata nuovamente in Francia: è dolorosa e conflittuale, ma al tempo stesso molto gioiosa. Per me Il grande caldo è stato un po’ questo.

Nella puntata 125 di Tintoria, Marcello ha parlato della voglia di fare tipica di questo periodo, della voglia di mettersi in gioco, mentre nel film emerge un gruppo di ragazzi annoiati e svogliati. 

Quanto distacco c’era dalla realtà, quanto eravate diversi rispetto alla voglia di fare cose?

Marcello: Eravamo una versione in scala dei personaggi, leggermente meno indolente e pigra. Anzi, in quegli anni eravamo molto produttivi, soprattutto io;  organizzavo serate, suonavo, volevo fare qualsiasi cosa e cercavo di trascinare gli altri. E quell’iper-produttività non era solo di un individuo ma faceva parte della filosofia della nostra scena, una versione molto rilassata e molto romana dello spirito do it yourself all’americana. C’era anche un po’ di arroganza nel voler fare tutto ciò che era possibile e disponibile, e nel credere –  almeno per me –  che il concetto e le intenzioni fossero più importanti della realizzazione: non ci servivano i milioni, perché se la cosa importante era l’arte, allora la si poteva fare anche con pochi soldi.

Tra i personaggi del film emerge la figura di Gianlorenzo e la sua difficoltà a relazionarsi con il mondo;  ha una caratterizzazione letteraria e cinematografica, mentre i vostri personaggi sono più aderenti alla realtà, senza filtri. Questo scarto tra voi e lui era programmato?  È emerso durante le riprese, o dopo?

Dan: Anche nella realtà Gianlorenzo era il più misterioso, avevamo addirittura pensato a non farlo mai parlare nel film. Non so se lo definivamo già come protagonista, perché, nonostante abbia più scene da solo, la sua storia è comunque legata a quella del gruppo. 

Marcello: È interessante, perchè le caratteristiche che l’hanno reso personaggio sono quelle che noi vedevamo in lui nella vita reale. Questo accade, secondo me, anche normalmente: nei gruppi di amici c’è sempre una polarizzazione dei ruoli per ognuno, che somiglia un po’ alla creazione dei personaggi in una storia, con confini definiti. Noi avevamo una rappresentazione di Gianlorenzo personale, che poi è finita nel film.

Dan: Lui è il meno protagonista nella vita reale, il più discreto e riservato. Prendere il più segreto e farne il cuore del film ci sembrava interessante.

Marcello: E forse questo umanizzava anche il film. Come narratori, abbiamo trattato male i nostri personaggi, mentre il suo viene mostrato molto positivamente: in lui vedevamo qualcosa di più puro.

Il rapporto tra bestemmie e misoginia: in questi nove anni sono cambiati il mondo e la società. c’è stata una transizione e oggi, forse hanno più impatto le frasi sessiste rispetto alle bestemmie. Come la vivete?

Daniele: Sicuramente bene, è stata una transizione positiva verso una attenzione maggiore nei confronti di temi più importanti, come il ruolo e la marginalizzazione della donna nella società. Aver riproposto un film che dieci anni fa ci preoccupava per le bestemmie e oggi per la misoginia, ci ha fatto porre domande; tuttavia, il film mostra un modo di parlare che c’era nei ventenni di allora. Noi lo abbiamo ripreso, forse esasperato, ma utilizzando battute vere, che esistevano.

Dan: Anche al tempo sapevamo che erano battute brutali ma ci sembrava più onesto metterle, piuttosto che fingere che i ventenni, scherzando con gli amici, non le dicessero.

Marcello: Credo che i ragazzi di oggi siano più consapevoli e vogliano cambiare le cose, però le cose che dicono, secondo me, non sono poi così diverse rispetto a dieci anni fa. Il film fa da specchio a delle situazioni che preferiamo non vedere e sentire: questo mi sembra molto più utile rispetto a fingere che le cose siano diverse.

Dan: Inoltre, c’è un forte scarto tra le battute che fanno al bar e la loro interazione con le due ragazze: lì sono intimiditi, si innamorano, sembrano dei ragazzini. I loro atteggiamenti in gruppo sono più legati alla difficoltà di provare a capire e relazionarsi con le donne. A quei personaggi fa paura parlare di emozioni, quindi buttano tutto sulla volgarità, quando in realtà sono solo un po’ soli.

Questa però è una cosa che ho già rivisto in diversi film, non è così strano.

Marcello: Quelle cose vengono dette a cuor leggero ma è un ragionamento pericoloso; credo ci sia una continuità tra discorsi di quel tipo (misogini, razzisti o omofobi) e violenza reale, sono in fondo sullo stesso continuum. Nel film non era nostra intenzione affrontare quell’argomento, semplicemente perché la storia trattava d’altro.

Per quanto riguarda le bestemmie, a noi sicuramente dispiace se qualcuno in sala può sentirsi a disagio; è totalmente legittimo, infatti, avvisiamo il pubblico prima della proiezione. Tuttavia, il diritto di mettere delle bestemmie in un film è talmente sacrosanto e inoppugnabile che, oggi, nessuno di noi si preoccupa. E se qualcuno se la prendesse saremmo felici di controbattere. Il motivo per cui non sono solitamente utilizzate nei film è meramente economico, perché a quel punto sarebbe difficile trovare una distribuzione. Però è accettato che il cinema voglia raccontare la realtà e questa è effettivamente piena di gente che bestemmia.

Riguardo al continuum di cui parlavi prima tra frasi misogine e violenza, secondo voi quale è il limite tra l’autocensura totale e la libera espressione di ciò che uno vuole rappresentare – e che non necessariamente pensa –  nell’arte?

Marcello: Secondo me, inscenare sentimenti tossici e violenti è giusto, ed è una delle funzioni dell’arte; anche le grandi opere raccontano sentimenti umani bassissimi, violenti e repulsivi, l’arte serve anche a quello.

Qui mi viene in mente una scena del film I cento passi, di Giordana, in cui Peppino Impastato si riferisce al cinema dicendo “Un film è sempre un’opera d’arte, non riproduce mai la realtà così com’è ma, attraverso un certo sguardo, attraverso un certo taglio interpretativo la reinventa, la trasfigura e la carica di senso.”

Servono a questo i film, a prescindere se hanno una morale o meno? 

Daniele: Forse questa è una domanda a cui non possiamo dare una risposta, è un concetto troppo filosofico.

Dan: Il film non deve dare un’etichetta ai nostri personaggi  ma solo mostrarli per come sono. Per esempio, Maurice Pialat, un regista francese post Nouvelle Vague, ha girato film realistici, anti narrativi, con personaggi maschili ispirati alla sua persona, tossici, violenti, possessivi e aggressivi, ma anche affettuosi in certi momenti. Lui  non prova né a salvarli (o salvarsi) ma neanche ad accusarli e denunciare: mostra la vita nelle sue sfaccettature, dal bello al brutto. Forse è quella la funzione dell’arte.

Anche perché uno come Lars von Trier va a Cannes con film come Antichrist, e ha comunque un successo di pubblico incredibile.

Dan: Io preferisco vivere un’opera con un approccio estetico ed emotivo, piuttosto che con un giudizio morale. Certo, nel film recitiamo noi stessi, quindi uno si chiede “si stanno mostrando meglio o peggio di come sono? Stanno provando a redimersi, ad accusarsi?” Siamo su una linea di ambiguità tra la realtà e la finzione.

Marcello: C’è un motivo se sul nostro film ci siamo fatti tante domande: quanto ciò che stiamo cercando di mostrare è rappresentato in maniera fedele e quanto invece è semplice storia? Recentemente, ho letto Opera struggente di un formidabile genio, di Dave Eggers, e nell’introduzione dice “se ti dà fastidio che quest’opera sia così reale, allora fingi che sia inventata”. E’ la cosa giusta da fare con il nostro film, che in fondo sì, è finzione.

Avete pensato se all’estero tutto ciò possa avere un impatto diverso? C’è un’ambizione, o una speranza, dietro a questo film?

Dan: Ce lo siamo chiesto quando lo abbiamo proiettato a Londra. In effetti la lingua è diversa, è un film molto romano, quindi in altre città fa reagire la gente in altri modi: a Roma la gente rideva anche per cose che conosceva, c’è dietro un discorso di identificazione. Però speriamo comunque di farlo vedere in Europa, anche perché, al di là delle particolarità linguistiche, racconta qualcosa di universale: quelle domande esistenziali, sulla vita, sono condivise dai ventenni ovunque, in ogni parte del mondo.

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