Imre Nagy e la rivolta ungherese del 1956

Le origini politiche di Nagy

Nato a Kaposvár il 6 giugno 1896 da una famiglia contadina, Imre Nagy si avvicina alle idee comuniste sulla scia della Rivoluzione bolscevica del 1917 e l’anno dopo si arruola nell’Armata Rossa. Rientra definitivamente in patria solo nel ’44 per assumere l’incarico di Ministro dell’Agricoltura nel governo provvisorio di Debrecen.

Nella Repubblica popolare Ungherese del dopoguerra ricopre diversi incarichi (tra cui quello di Ministro dell’Interno) ma le sue posizioni sulla collettivizzazione forzata gli causano l’inimicizia dell’ala stalinista del Partito dei Lavoratori Ungheresi (PLU), cinghia di trasmissione dei comunisti sovietici. Nel ‘49 viene quindi allontanato dal Partito, saldamente legato all’impostazione ideologica e all’approccio economico stalinista.

Il governo Nagy e il nuovo corso

Nel blocco sovietico non c’è spazio per le dissidenze interne fino a quando, nel marzo del ’53, muore Stalin. Dopo la dipartita del leader georgiano si infiamma il dibattito su come costruire un socialismo alternativo allo stalinismo, e le Repubbliche centro-europee di Polonia e Ungheria sono in prima linea nella proposta di una “via nazionale al socialismo“.

È in questo contesto che Nagy torna in superficie e riacquista credibilità politica. Nell’aprile del ‘53 diventa primo ministro con il sostegno di Mosca che, preoccupata per le rivolte contadine che affliggono il Paese, impone una svolta riformista al PLU per non perdere ulteriore consenso.

In poco meno di due anni Nagy si fa portavoce di un marxismo più attento ai diritti dell’individuo e poco incline alla repressione delle dissidenze. Il 4 luglio annuncia via radio l’avvio di un nuovo corso che rifiuta la violenza come arma di controllo sociale e mira alla partecipazione popolare nella vita politica.

Sono princìpi che suonano come una bestemmia a Mosca.

La seconda espulsione dal partito

Nonostante l’ampio supporto popolare Nagy continua ad essere osteggiato dall’ala stalinista del Partito e di fatto non riesce a realizzare le politiche del nuovo corso. Chiamato a rapporto in Unione Sovietica, si rifiuta di fare autocritica e una volta tornato in Ungheria insiste sulla necessità di realizzare un cambiamento radicale fino a quando, nell’aprile del ‘55, viene accusato di revisionismo e nuovamente espulso dal Partito.

Isolato a vita privata, non rifugge dal conflitto con gli stalinisti e scrive il suo manifesto politico, “Sul comunismo, in difesa del nuovo corso”, dove difende l’importanza delle riforme del suo governo e sottolinea l’urgenza di sganciarsi dalla visione stalinista del comunismo per abbracciarne una nuova, più dinamica e in grado di adattarsi al contingente.

Con l’estromissione di Nagy dal potere il nuovo corso si arena, ma le idee del riformista magiaro continuano a spaccare il PLU al suo interno fino a ridurre in minoranza l’ala stalinista. Con il passare dei mesi le stesse idee producono effetti dirompenti anche fuori del partito, nelle strade e nelle piazze di Budapest.

Nagy e la rivolta di ottobre

Il 23 ottobre del ’56 studenti e operai ungheresi popolano le piazze: contestano l’ala stalinista del PLU e chiedono un ritorno di Nagy. Messo alle strette il PLU richiama l’ex primo ministro, ma è troppo tardi: la brusca interruzione delle politiche da lui avviate nel precedente governo ha radicalizzato i dissidenti comunisti e dato coraggio alle opposizioni anticomuniste. Adesso i ribelli rivendicano una totale indipendenza nazionale, l’uscita dal Patto di Varsavia (con il ritiro delle truppe sovietiche dal territorio nazionale) e un sistema pluripartitico e democratico.

Il 25 ottobre militari sovietici e forze armate ungheresi aprono il fuoco sui manifestanti davanti il Parlamento. I morti sono più di 60. La rivolta assume da questo momento un carattere nazionale e per Nagy la strada del compromesso si fa sempre meno percorribile.

Nagy, schiacciato tra le richieste dei dissidenti e la pressione politica dell’Unione Sovietica, riesce a ristabilire la pace senza l’uso della forza, avviando con i ribelli delle negoziazioni per porre fine alla lotta armata. Ma è una pace apparente destinata a non durare poiché i ribelli, sostenuti da una parte consistente dei riformisti all’interno del partito, vogliono ottimizzare il sacrificio fatto durante i giorni precedenti.

Il 30 ottobre il primo ministro decide di schierarsi apertamente da una parte della barricata e si fa portavoce delle istanze della piazza, annunciando via radio la fine del monopartitismo. Il giorno dopo scioglie il PLU e fonda il Partito Socialista Operaio Ungherese, mentre il 1° novembre prende la decisione di uscire dal Patto di Varsavia, dichiarando la neutralità del paese.

Sono scelte che portano ad una convinta reazione militare dell’URSS.: il 4 novembre l’Ungheria viene occupata dalle truppe del Patto di Varsavia e in pochi giorni la rivolta viene piegata dai carri armati sovietici. Nagy ha firmato la sua futura condanna a morte: trova riparo nell’ambasciata jugoslava fino al 22 novembre quando, sotto la falsa promessa del nuovo governo Kádár, esce per allontanarsi liberamente dal Paese.

Viene invece arrestato dal KGB e trasportato a Snagov, nei pressi di Bucarest. Giustiziato il 16 giugno del ’58 con un processo farsa, viene riabilitato con un funerale di Stato solamente nel 1989, durante lo sgretolamento del blocco sovietico.

La rimozione di Orbán

Malgrado la riabilitazione degli anni ’90, Nagy non è più un’icona indiscussa dell’unità nazionale: nel dicembre 2018, per volontà del governo Orbán, la statua a lui dedicata è stata rimossa da piazza dei Martiri (di fronte al parlamento ungherese) per essere ricollocata in piazza Mari Jászai.

Una rimozione non casuale vista la poca simpatia dei conservatori ungheresi per lo storico primo ministro. La vicenda di Nagy ricorda infatti a FIDESZ (il partito di Orbán) tutta la complessità della rivolta del ’56, dove anche i comunisti furono protagonisti, dentro il partito così come nelle piazze.

Un fatto, questo, che smonta l’attuale narrazione revisionista della destra ungherese (ma anche di quella italiana), che vorrebbe far passare la rivolta di Budapest come una rivoluzione anticomunista, spogliandola dell’eterogeneità che la caratterizzò e disconoscendo l’apporto significativo che i comunisti ebbero durante tutte le fasi della rivolta. Molti di loro seguirono Nagy e sostennero i manifestanti pagando questa scelta con la vita, proprio come il primo ministro riformista. Sarebbe giusto non dimenticarlo.

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