La Russia negli affari afghani

La Russia è al centro delle chiacchiere internazionali negli ultimi mesi, sia per la questione dell’invasione talebana in Afghanistan sia per le relazioni con gli stati europei e l’America nel G20. Ma iniziamo per gradi…

Sono ormai due mesi e mezzo che l’Afghanistan si è arreso al loro nemico più temuto, i talebani, sotto gli occhi spettatori dell’intera Europa e dell’America. La stessa che ha “abbandonato” il popolo afghano al suo destino. Un destino che potevano scegliere, tuttavia, come scriverlo, se sotto il dominio talebano o sotto la libertà democratica europea ed extraeuropea costruita ed impiantata con molta fatica. Ci sono voluti effettivamente 20 anni affinché questo potesse accadere!

Eppure il popolo afghano non ha opposto resistenza, è bene ricordarlo ancora una volta. Perché “la colpa” – qualora ce ne sia una – non è solo nostra ma anche dei paesi orientali che hanno molti altri interessi in paesi come l’Afghanistan, l’Iran e l’Iraq ricchi di risorse naturali a cui attingiamo. Ebbene sì, il riferimento è proprio alla grande Russia!

Non è certo un segreto che la Russia ha sempre avuto un certo interesse nei confronti di questa terra per le sue mire espansionistiche innanzitutto. Il rapporto amore-odio è di vecchia data: nel 1919 il governo del re Amānullāh Khān riconobbe il regime bolscevico instauratosi a Mosca dopo la rivoluzione d’ottobre contro gli zar; in cambio, ricevette aiuti nella guerra anglo-afghana, terzo conflitto che comportò la liberazione definitiva dell’Afghanistan come colonia inglese. Nel 1921 strinsero un patto di amicizia in cui il governo di Kabul, in cambio di forniture militari, negò il suo appoggio ai ribelli islamici basmachi (popoli turchi musulmani del Turkestan russo) attivi nelle regioni asiatiche dominate dall’Unione Sovietica. Con la caduta di Khan e l’ascesa di Mohammed Zahir Shah nel 1933 i rapporti si raffreddarono, ma rimasero quelli diplomatici e commerciali: il primo ministro Mohammed Daud Khan trattò per mantenere rapporti più stretti con l’URSS, firmando un trattato di amicizia nel 1956. Da allora, molti furono i finanziamenti da parte di Mosca per modernizzare il Paese: strade, infrastrutture, aeroporti, addestramento ed equipaggiamento dell’esercito afghano e aiuti civili.

Daud instaurò sull’Afghanistan un governo autoritario e personalista, e rese ancora più pacate le tensioni con il Pakistan per la definizione del confine terrestre tra i due paesi, conseguenza del periodo di dominazione britannica. Nel 1964 si istituì nel Paese una nuova Costituzione, che inaugurò il regime di monarchia costituzionale con libere elezioni a suffragio universale e l’emancipazione delle donne.

Nel 1973 ci fu un colpo di Stato indotto dallo stesso Daud: fu abolita la Costituzione ed il paese venne indotto verso una linea guida repubblicana con a capo lo stesso Daud come capo di Stato e di governo. Però, le sue iniziative si dimostrarono fallimentari sia in politica estera (tentando di diminuire l’influenza sovietica) sia nella politica interna.

Dunque, l’Afghanistan è sempre stato un paese pronto e aperto alla democrazia: il nuovo governo continuò a portare avanti la modernizzazione in ambito socio-economico, fu abolita l’ushur (la decima dovuta ai latifondisti dai braccianti), le banche furono nazionalizzate, furono implementati programmi di alfabetizzazione; tolti i matrimoni combinati, il burqa non era più obbligatorio, le donne potevano partecipare alla vita politica attivamente, oltre che votare.

L’unico intoppo per il completamento della modernizzazione fu, come già riportato in un precedente mio articolo, la quasi totalità della popolazione urbana ovvero gli abitanti delle zone rurali: l’eccessiva velocità di questi cambiamenti ha indotto maggiori ostilità in queste persone che erano strettamente legati ai principi tradizionali e religiosi. Dunque, questa fetta prioritaria di popolazione è sempre rimasta la più analfabeta e rurale legata ai precetti islamici. Nonostante ciò, le leadership delle forze governative al potere portarono avanti i propri programmi dimostrando quale fosse il prezzo da pagare di fronte a qualsiasi ribellione e opposizione: arresti ed esecuzioni. È di fronte a queste recrudescenze che dal Pakistan i mullah e i leader islamici in esilio invocavano un jihad contro la RDA: dal 1978 nelle montagne dell’Afghanistan si formarono le prime bande di guerriglieri anti-governativi chiamati mujaheddin e i primi scontri ebbero inizio nella provincia di Konar.

Dal 24 dicembre 1979 al 15 febbraio 1989 nasce dalla guerra sovietico-afghana. Il conflitto può essere suddiviso in 4 fasi:

  1. Dalla fine di dicembre 1979 alla fine di febbraio 1980: i sovietici consolidano le loro posizioni e affrontano i primi combattimenti contro gli oppositori afghani.
  2. Da marzo 1980 ad aprile 1985: fase più acuta.
  3. Da maggio 1985 a dicembre 1986: i sovietici cercano di trovare una via di uscita dal conflitto, riducendo le loro operazioni cercando di coinvolgere maggiormente le truppe della RDA e avviare i primi contatti diplomatici con gli oppositori.
  4. Da gennaio 1987 a febbraio 1989: i sovietici si ritirano.

Esso vede coinvolte le forze armate (governative) dell’allora Repubblica Democratica dell’Afghanistan (RDA), sostenute da un numero molto elevato di truppe sia via terra sia via aerea dell’Unione Sovietica, contro i mujaheddin appoggiati da un gran numero di nazioni estere. Il conflitto ebbe origine dall’intenzione dell’Armata Sovietica di rimpiazzare il presidente della RDA Hafizullah Amin con Babrak Karmal; cosa non ben accettata e che provocò la guerriglia afghana trasformandosi in tutto e per tutto in una guerra civile. Fu distrutto quasi l’intero paese, per non parlare delle numerose perdite di civili; l’Unione Sovietica terminò la guerra con la ritirata delle proprie truppe dopo la firma degli accordi di Ginevra tra RDA e Pakistan nel 1989. Nonostante gli accordi che sancirono la fine di questa guerra definita come “il Vietnam sovietico”, gli scontri tra mujaheddin e truppe governative continuarono fino alla caduta della RDA nell’aprile del 1992.

Gli studiosi sostengono che l’Unione Sovietica abbia commesso, con questo lungo conflitto, un vero e proprio genocidio: furono uccisi fino a 2.000.000 di afghani con trappole esplosive, mine e sostanze chimiche in tutto il paese per impedire che i civili fossero soggiogati dai mujaheddin. Rapirono dalla città di Kabul, Laghman e Kama anche donne afghane in giro per il paese durante le ricerche dei ribelli per violentarle. Le donne violentate furono considerate poi “disonorate” dalle loro famiglie ed episodi del genere erano quasi all’ordine del giorno (l’11,8%).  

Sul finire del 1991 la dissoluzione dell’Unione Sovietica rappresentò la fine della RDA: lo Stato afghano si ritrovò in crisi economica, perché sprovvista di aiuti provenienti da Mosca, sia per quelli militari sia per il grano e combustibili. Il nuovo governo di Boris Nikolaevič El’cin decise di tagliare i ponti con Kabul, finendo così di affossare il paese. I mujaheddin marciarono verso Kabul da più lati, le forze militari si sgretolarono con facilità andando anche gli uni contro gli altri. Nel 1992 la RDA venne cancellata e prese il suo posto lo Stato Islamico dell’Afghanistan con leader i ribelli.

Uno scenario di vita che sembra lontano solo a guardar la data indicata, ma che è diventata nuovamente realtà da fine agosto 2021. Dunque, una guerra mai finita e che effettivamente non finirà mai perché tanto è l’odio insito nei cittadini dell’Afghanistan che non si riconoscono più come un unico popolo.

La Russia nell’Afghanistan di oggi.

Come abbiamo ampiamente detto ripercorrendo un po’ la storia che lega i due Paesi, attualmente la Russia si pone come spettatore dei fatti in Afghanistan. Sembra un déjà-vu!

Se dovessimo commentare come ha reagito Putin alla resa immediata e senza sibilo degli afghani ai talebani, diremo che si tratta di una reazione detta fredda Realpolitik : innanzitutto, perché Mosca ha interesse a gestire direttamente quanto sta accadendo a Kabul sia per sicurezza interna (terrorismo jihadista) sia per propaganda per il proprio Paese. Gli USA ne sono usciti in malo modo perché hanno abbandonato gli afghani ed è stato giudicato da molti un ritiro frettoloso. Dunque, loro potrebbero essere i futuri paladini per il Paese, e di conseguenza potranno ricreare un’immagine più pulita della Russia. Tutto questo è fomentato soprattutto dalla visita di Angela Merkel a Putin, riconoscendogli il ruolo importante che la Russia ha nel riportare gli europei a casa e ospitare i profughi di guerra.

La posizione di Mosca nei confronti di Kabul è di stupore, perché sicuramente non si aspettava una debole risposta dell’esercito afghano. Non fa altro che confermare quella che è anche la linea dell’UE, ovvero cercare di instaurare un dialogo con il nuovo governo talebano. Nuovo perché ha dichiarato più volte di non voler essere etichettato come quel governo cattivo che combatte ogni opposizione con le repressioni ed esecuzioni pubbliche (cosa che purtroppo ad oggi non possiamo dire che non faccia!), ma che accoglie tutto ciò che gli occidentali hanno lasciato nella loro terra. Mosca non si mostra ancora del tutto preoccupata perché avrebbe voluto un po’ più di tempo per elaborare una strategia politica e, cosa più importante, adesso punta maggiormente al Tagikistan e Kirghizistan dove si trovano basi militari russe.

Infine, c’è un altro punto interrogativo che man mano si sta espandendo nella zona orientale: la Cina. Dal 1993, dopo la caduta del governo afghano sostenuto dai sovietici, essa evacuò la sua ambasciata a Kabul. Nel 2021, invece, l’ha tenuta aperta facendo in modo di dimostrare la sua volontà di riconoscere il futuro governo talebano secondo il principio di non interferenza. Infatti, il ministro degli Esteri Wang Yi ha accolto la delegazione dei rappresentanti di talebani con il leader Baradar definendoli come “una cruciale forza militare e politica”. Una mossa contraddittoria rispetto a quanto sta accadendo nel paese cinese, ovvero è in atto una campagna oppressiva nei confronti della minoranza musulmana Uyghur in Xinjiang, in nome della guerra contro l’estremismo islamico. Xinjiang condivide con l’Afghanistan un piccolo pezzettino di terra che permette al MITO (Movimento Islamista del Turkestan Orientale) di creare delle basi talebane che lanciano attacchi alla Cina. Ecco, dunque, il primo motivo dell’interesse della Grande Muraglia: assicurarsi che non ci sia alcuna collaborazione tra il gruppo armato MITO e il futuro governo talebano. Il secondo obiettivo è quello di assicurarsi la stabilità economica dell’Afghanistan per gli investimenti cinesi. Ricordiamoci che è un territorio ricco di risorse territoriali: cobalto, litio, rame e tanti altri minerali. In più, c’è il gas che rifornisce tutti noi. Insomma, si tratta di materie prime importanti per l’industria cinese, in particolare le apparecchiature elettroniche. Lo sfruttamento di tale Paese è preferibile rispetto all’Africa, anche in termini logistici trovandosi più lontano dalla Cina.

C’è un problema: la zona è sempre stata di pertinenza russa, dunque l’invasione cinese potrebbe provocare uno scontro con Mosca che sta cercando di riposizionarsi a livello di egemonia all’interno del continente europeo. L’Afghanistan, però, potrebbe essere inglobato nella Nuova Via della Seta (il corridoio Cina-Pakistan).

Un’alleanza che potrebbe portare a un benessere per il paese talebano, ma che può ledere gli equilibri internazionali occidentali. Possiamo solo essere spettatori di ciò che avverrà.

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