La trasfusione nell’indipendente: il caso di Caucaso

Casa del cinema di Roma, domenica 9 ottobre. Sei film di autori emergenti per la rassegna cinematografica Emisferi, organizzata da Tersite e Caucaso, due case di produzione indipendenti. L’evento mi ha dato l’occasione di dialogare con Enrico Masi  – fondatore di quest’ultima – sulla situazione attuale del cinema indipendente. 

Come accade di solito nelle interviste, soprattutto a certi personaggi, la conversazione ha spaziato tra tematiche diverse, travalicando le testimonianze oggettive per sconfinare nel campo delle idee; Masi ha obiettivi precisi e definiti, i quali, accostati alla profonda passione per il proprio mestiere, hanno portato alla produzione di opere di qualità. Ciò che ne emerge è una convergenza equilibrata di determinazione, interesse culturale e forte spinta ideologica ed emotiva; componenti che, a quanto affiora dai suoi racconti, sono per lui sullo stesso piano.

Dopo la visione del corto The fountain of life, diretto da Davide Rabacchin e prodotto proprio da Caucaso, pongo a Masi alcune domande, partendo proprio dallo short film del quale egli è particolarmente orgoglioso.

Hai definito The fountain of life un po’ come il vostro manifesto. In cosa vi sentite rappresentati da questo corto, e come credi che vi identifichi?

Personalmente, in questo piccolo film io ho dato tutto: c’è la mia voce, ci sono immagini che ho utilizzato per altri film e un’enorme cura nei confronti dell’autore. Questo è proprio uno dei punti fondamentali del nostro manifesto, ovvero l’artista che lavora per un altro artista, lasciandogli centralità ma, allo stesso tempo, rivendicando ciò che vi ha messo; è forse il punto centrale, quello che crea il collettivo. 

Per quanto riguarda la produzione cinematografica indipendente in Italia, in particolare quella incentrata sul sociale: come ti sembra la situazione attuale e che previsioni puoi fare sul futuro?

Mi sembra che ci siano forti gangli in crescita in varie città, gruppi di maggiore o minore successo che lavorano molto. In una parola, l’underground

Le regioni, poi, ultimamente hanno aiutato tanto, sostenendo il settore con svariate iniziative, grazie alle basse cifre che queste richiedono. È sicuramente un passo avanti, quando ho iniziato nel 2002 la situazione era più statica.

Certo, anche il digitale ha semplificato molte cose. Tuttavia, credo che ci abbia resi meno avventurosi: quando io ho iniziato non avevo una mappa per muovermi, né contatti facilmente raggiungibili. Ci ho messo molto tempo per arrivare dove sono ma la soddisfazione è stata immensa. Forse il digitale ne toglie un po’, dà meno sapore alle conquiste. Gli avventurieri, però, esistono ancora oggi.

C’è, infatti, lo stesso fermento di alcuni anni fa, forse più movimentato grazie alla velocità e capacità di produzione, aumentate dalle possibilità tecnologiche. 

Ti sembra di riscontrare un forte livello di sperimentazione e innovazione?

Devo dire che il cinema in Italia non è molto sperimentale, nonostante abbia grande successo nei festival internazionali. Siamo molto bravi a rendere i problemi e la realtà, è un cinema con del sale, ma è mancata sicuramente una rivoluzione formale. Caucaso prova a farlo, senza per forza rinnovare tutto, prendendo anche molto dal passato: The fountain of life, per esempio, riprende molto le avanguardie storiche, aggiungendovi tuttavia un secolo in più di pensiero e storia cinematografici. È quindi un ciclo, che riprende e reinventa sé stesso.

Io spero che la nuova generazione ricominci a fare sperimentazione linguistica nel cinema. Oggi non è molto evidente, c’è sicuramente della qualità in molti gruppi, ma poca rivoluzione del linguaggio. Per esempio, si potrebbe utilizzare l’archivio in senso lato: non solo immagini, ma anche elementi sonori, fotografie, illustrazioni, inserendo quindi materiali statici. Ciò creerebbe una rottura, non tanto dei temi (che restano gli stessi), quanto  formale: è dalla forma, infatti, che poi i temi passano.

Shelter – Farewell do Eden (feature film Caucaso), rompe il linguaggio formale per affrontare il tema dello sganciamento identitario: per restituire l’idea di una persona che ha un problema di identità, infatti, rompiamo la forma dal punto di vista dell’estetica e della sintassi cinematografica. Se avessimo utilizzato una forma solida e rigida per rendere una persona che vive nella disarmonia come la protagonista, il risultato sarebbe stato incoerente! Rompiamo la forma, lo specchio, quindi, in modo da trovare una nuova poesia e liricità nei frammenti. 

In Caucaso, inoltre, teniamo molto al concetto di ecologia dell’immagine. Oggi i film si girano troppo e con una miriade di supporti tecnologici. Noi, invece, diciamo “gira con poco e meno, pensa, studia, analizza e monta di più ciò che già hai.” 

Quale è il vostro rapporto lavorativo con l’Italia e con l’estero?

In Italia, soprattutto al Sud, siamo estremamente attivi, e già questo forse è sperimentale e rivoluzionario: il nostro investimento in quelle regioni è fortissimo.

Allo stesso tempo, però, Caucaso è molto internazionale e nasce proprio sotto quel segno; io ho vissuto molti anni in varie parti del mondo e i nostri nuovi film sono tutti coprodotti con l’estero. Potremmo considerare Caucaso un mélange culturale, linguistico e geografico, esperienza bellissima ma anche dispendiosa (soprattutto ora che supervisioniamo anche film di altri; a breve, coprodurremo il film di un ragazzo portoghese, nostro ex tirocinante). 

Io ne sono felicissimo: si lavora molto e con grosse spese ma, quando le cose vanno bene, è come una piccola rivoluzione, un’educazione e una contaminazione continua e costante. Prossimamente apriremo addirittura una collaborazione con il campus Einaudi di Torino! Questa è ciò che chiamo rivoluzione: un collettivo militante, come il nostro, che intreccia rapporti con altre città, garantendo una “trasfusione di sangue” che ci tiene giovani.

Nel mondo parliamo tantissime lingue, tra cui il linguaggio del corpo, della prossemica, la coreografia dello spazio, linguaggi più animali. Caucaso è la metafora di un meticcio composto da tutti questi linguaggi, dove si mettono le basi per provare a capire l’umanità, come hanno fatto in tanti prima di noi. Ma, senza alcun dubbio, saper tenere insieme linguaggi diversi in tutta la sua difficoltà, è già una base solida.

Progetti futuri?

Con Terra incognita, in uscita nel 2024, vogliamo provare ad esprimere un urlo generazionale che apra gli occhi sui temi ecologici. Cerchiamo un modo artistico di raccontare una generazione che ha vissuto un tracollo morale e ambientale,  che produce un urlo ben diverso da chi ha vissuto il boom degli anni ‘60. 

È mancata, infatti, una generazione successiva a questi che fosse di impatto sul piano etico, istanze delle quali, invece, dovremmo farci carico.

Io non credo che l’artista possa evitare di essere politico; anche chi normalmente non si esprime, sta implicitamente definendo un concetto politico. 

Io ho avuto la fortuna di essere uno degli ultimissimi allievi di Umberto Eco. Ancora oggi, vivo nel solco del pensiero di persone con cui mi sono confrontato e che mi hanno ispirato, e questo ci riporta al concetto di “trasfusione generazionale di sangue” di cui parlavo prima. Proprio come i miei maestri, anche io credo che questa nuova generazione debba riscoprire le cose per il gusto di farlo, rinnovare il piacere dell’attivismo e della militanza contro la posa e la staticità.

Quindi senza cristallizzarsi, evolvendosi continuamente?

Esatto. Ma bisognerebbe approfondire e cercare chi lo fa davvero, non solo dirlo. Vivere così è raro, difficile e complesso. Tuttavia, io ho avuto la fortuna di nascere e crescere in questo mondo: faccio ciò che sognavo di fare da quando avevo 14 anni, e questo mi rende estremamente felice.

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