È da molto tempo ormai che nei “salotti” televisivi si discute e, spesso, si sentenzia riguardo fatti di cronaca, anche efferati. Infatti, sono numerose le conclusioni – anche inerenti alla sfera giuridica – tratte dagli opinionisti, ospiti negli studi del “tubo catodico”. Al tempo stesso, nelle pagine social delle note trasmissioni di cronaca giudiziaria, si possono notare e leggere i commenti della gente comune, la quale si trova lì a “tifare”, per quella o questa tesi, quasi come fosse una normale partita di calcio.
Oramai, è noto che il c.d. processo mediatico, il quale si svolge nelle “aule” televisive, frutto probabilmente di una costola di quella “televisione del dolore” nata nella tragica vicenda della caduta in pozzo artesiano del piccolo Alfredino Rampi, attragga le persone come un’appassionante serie televisiva, tenendole incollate allo schermo, forse perché immedesima le stesse in quelle vicende e permette loro di esprimere opinioni e “sentenze”, rendendoli anche partecipi.
A tal proposito, di recente è capitato di leggere il libro “In nome del popolo televisivo – Da Cogne ai giorni nostri”, scritto a “quattro mani” da Valerio de Gioia – Magistrato presso il Tribunale penale di Roma – e Adriana Pannitteri – nota giornalista e conduttrice del TG1 – ed edito da Vallecchi Firenze.
I due Autori, partendo dall’indimenticato – ahimè – delitto di Cogne, ripercorrono alcuni dei casi di cronaca nera che hanno scosso il nostro Paese, sia dal punto di vista giuridico, sia da quello della comunicazione. E, appunto, proprio il delitto di Cogne è stato il precursore del c.d. processo mediatico: chiunque ricorderà i plastici che ricostruivano gli ambienti della “scena del crimine”, le infinite ore di dirette dei programmi che rincorrevano i protagonisti della triste vicenda, le supposizioni – anche erronee – di opinionisti prestati al talk di un omicidio di un bambino di neanche quattro anni.
A parere di chi scrive, gli autori, con un tatto che li contraddistingue, non solo riescono, in poche pagine rispetto alla complessità degli accadimenti, a ricostruire i fatti e le parti dibattimentali più importanti, ma anche a criticare aspramente l’esagerazione del processo mediatico che, magari, trae conclusioni affrettate o esagerate. Infatti, sebbene non giustifichino mai, giustamente, chi ha commesso tali delitti, tuttavia non traggono giudizi sulla persona che li ha commessi. Al contrario, a far ciò è proprio la gogna mediatica anche nel caso di una persona solamente indagata, e non ancora colpevole con una sentenza passato in giudicato.
Si badi bene, nessuno qui, e tantomeno gli Autori, vorrebbero porre un freno al sacrosanto diritto di cronaca; però, forse, esso deve esser temprato dalla situazione del caso. Anzi, come si vedrà leggendo questo piacevole libro, proprio a ribadirne la sua importanza, si dimostra come alcune volte sia stato il diritto di cronaca a risolvere dei cold case italiani.
Dunque, se da un lato è più che comprensibile che le televisioni inseguano lo share – o, per meglio dire, gli ascolti Auditel – e si occupino di cronaca giudiziaria, con relativi opinionisti; dall’altro lato, però,come indicato dagli autori, sarebbe opportuno quantomeno evitare giudizi affrettati, ricostruzioni e celebrazioni di processi “televisivi”, che nulla hanno a che vedere con la “sacralità” dell’unico vero processo, ovvero quello che si svolge nelle aule giudiziarie. Tuttavia, il c.d. processo mediatico è da considerarsi oramai come un fenomeno sociale: esso non cesserà mai di esistere, o, comunque, di attenuarsi, perché consente alle persone comuni di diventare “giudici” di quegli avvenimenti, in ragione del fatto che, in cuor nostro, non solo siamo un popolo di allenatori quando gioca la Nazionale di calcio, bensì anche un popolo di “giudici”.