L’informazione che verrà: tra fake news e deontologia

Sono le 14:00 di venerdì 8 aprile ’22 ed è il terzo giorno del Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia. Fuori da Palazzo Cesaroni, sede dell’amministrazione regionale, una lunga fila ruota intorno all’edificio neoclassico. In attesa ci sono studenti – liceali e universitari provenienti da tutta Italia -, professori, attivisti, giornalisti ed editori internazionali. La curiosità suscitata dal panel “Sconfiggere i troll: polarizzazione, disinformazione e giornalisti presi di mira” è talmente tanta che molti non riescono ad entrare in sala e ad assistervi. Al termine dell’incontro, tuttavia, riesco a fare comunque una domanda, immerso nella bellezza della sala Brugnoli.

Ciò che voglio sapere dalle stimate giornaliste che ho davanti è: come combattere la disinformazione nella dilagante orda di fake news di cui le piattaforme online si fanno protagoniste?

«Come si evita la disinformazione? Dobbiamo assolutamente parlare di questo argomento e non soltanto alle generazioni più giovani, perché tutti hanno bisogno di imparare a verificare ciò che stanno guardando, sia questa una foto, sia questo un articolo. Per arrivare ad un ecosistema informativo sicuro, dobbiamo iniziare a fare campagne di educazione digitale nelle scuole e non ci possiamo permettere di farlo solo una volta ogni tanto. I programmi educativi devono essere costantemente aggiornati, visto e considerato il progresso esponenziale della tecnologia. Perciò, così come sono importanti i percorsi scolastici che insegnano come approcciarsi al voto, è importante fare campagne su “come usufruire dei media” e, soprattutto, su “come verificare la validità della notizia”».

Questa è la risposta di Meera Selva, direttrice del “Journalism Fellowship Programmeall’istituto Reuters (RISJ), presso l’università di Oxford. La sua esperienza come corrispondente di Associated Press e dell’Indipendent nonché del Daily Telegraph e di altre testate internazionali, la rendono una fonte incredibile per confrontarsi sulle tematiche del fact-checking e dell’etica professionale.

Patricia Campos Mello, editor del Folha de São Paulo e vincitrice nel 2019 dell’International Press Freedom Award del Committee to Protect Journalism, in merito a questo argomento, ha esposto il suo studio legato a WhatsApp e Telegram e come, attraverso quest’ultimi, il popolo brasiliano sia stato plagiato per scopi economici o politici. La sua inchiesta ha portato WhatsApp ad ammettere che la propria piattaforma è stata utilizzata per degli illeciti nelle elezioni del 2018. Il presidente Bolsonaro, per infangare la sua figura e la sua etica lavorativa, ha fatto intendere che ha ottenuto le sue fonti attraverso favori sessuali. Per questo motivo – tramite una sentenza storica – il presidente Bolsonaro si è visto costretto a pagare una somma a Patricia per averla diffamata. Patricia ha vinto una causa simile nei confronti del figlio del Presidente, il quale ha fatto allusioni simili a quelle del padre. Il suo caso – spiega durante l’incontro  – «è applicabile anche ad altri paesi. Il Brasile è solo un esempio ma, in tutto il mondo, chi si occupa di informazione viene linciato virtualmente e non; in particolar modo le giornaliste vengono discreditate per il loro essere donne e vengono attaccate dal punto di vista della propria vita privata e sessuale». V’è una forte misoginia anche nei linciaggi online che poi, rapidamente, si trasformano in molestie. Ecco perché è importante evitare di sottovalutare il troll e la sua offesa. Bisogna intervenire tempestivamente, perché i termini legali per farlo ci sono. Serve però educare le comunità digitali, le quali credono che, online, possano permettersi di fare e dire ciò che vogliono. In particolar modo, serve creare anche una rete di solidarietà tra i giornalisti che, spesso, finiscono per essere indifferenti con i propri colleghi. Invece, serve ristabilire il valore del fare informazione e il rispetto che questo merita. Questo valore sembra essersi perso tra i milioni di tweet. Ecco perché, anche su Twitter, bisognerebbe ricordare che il reporter è tenuto a riportare il fatto e non è costretto a dare la sua opinione su tutto quello che succede. A tal proposito il NewYork Times ha specificato ai propri giornalisti di «twittare meno, di pensarci di più e di dedicare più tempo al riportare le notizie». Lo stesso giornale ha anche esteso il proprio team di protezione contro gli abusi online nei confronti dei propri giornalisti. Questo perché, nonostante l’esistenza di regole di condotta delle comunità, è incredibile la quantità di odio e violenza che non viene filtrata sui social.

Infine, Meera spiega la chiave di volta per approcciarsi online:«il giornalismo è un bene comune con valori, ecco perché i giornalisti possono difendersi con i propri valori e con la propria etica. Ai lettori devi spiegare chi sei, cosa fai e perché lo fai. I tuoi principi sono quelli che rappresentano quello che scrivi. Quello che scrivi è importante, ha un impatto su ciò che avviene nel mondo».

Il Festival si è reso partecipe di approfondire questi argomenti in diversi panel, attraverso speaker con grande esperienza giornalistica ed editoriale. Ciò che è emerso in particolare è che, per contrastare la deriva dell’informazione, dobbiamo ripartire dalla deontologia e come ricordato nel panel “La protezione dei giornalisti in prima linea online e sul campo”: «La sicurezza non riguarda più solo i giornalisti che lavorano dalle zone di conflitto o nei contesti di crisi. Ora è un problema per qualunque giornalista, a livello locale o internazionale, sul campo o dietro lo schermo di un computer». Dobbiamo perciò dare all’informazione il ruolo che le spetta, non confondendo WhatsApp, Telegram o Facebook con le Agenzie di stampa, perché informarsi è un nostro diritto e non possiamo permetterci di perderlo tra milioni di tweet.

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