Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della patrimoniale.
L’emendamento alla Manovra fiscale 2021 ha subito causato un’univoca reazione di sdegno da parte delle destre e dei liberali di questo Paese, che hanno bocciato drasticamente la proposta firmata Fratoianni (LeU) e Orfini (PD).
L’imposta, pensata da quello che rimane della sinistra italiana in Parlamento, si applicherebbe sia ai beni mobili sia a quelli immobili seguendo il principio costituzionale della progressività della tassazione. Si parte dai patrimoni compresi tra i 500 mila e 1 milione di euro con un’aliquota dello 0,2% (poco più di mille euro) fino ad arrivare al 2% per i patrimoni che superano i 50 milioni e il 3% per quelli che superano il miliardo.
Senza entrare nel merito della questione economica, suscita un certo imbarazzo notare il vocabolario utilizzato da una consistente parte della destra italiana (e dei media vicini ad essa) per avallare le proprie tesi di rigetto della patrimoniale.
Se ci si fermasse ai commenti di alcuni, sembrerebbe infatti che l’emendamento proposto sia qualcosa di molto simile a una rapina collettiva, un furto agli italiani, un delirio post-comunista.
Ascoltando in questi giorni le farneticazioni espresse sui social o in televisione, l’imposta progressiva avrebbe assunto misteriosamente i contorni di un esproprio proletario o di una feroce collettivizzazione dei beni mobiliari e immobiliari degli italiani.
Una narrazione, questa, ai limiti del grottesco, che ha abbassato il livello della discussione facendo leva su un sentimento di rifiuto ideologico che una fetta degli elettori di destra ancora prova verso il comunismo.
Ma bollare come comunista una politica di redistribuzione, per quanto questa sia fallace e criticabile, significa non avere cultura della scienza politica oltre che essere sprovvisti di sensibilità storica e onestà.
Una politica redistributiva non è una politica comunista. Per “scoprirlo” basta aprire un libro di storia e leggere cosa è stato il socialismo reale e cosa ha significato sotto il profilo economico. Una tassa del 2% per patrimoni superiori ai 50 milioni non è un piano quinquennale stalinista, qualcuno lo spieghi ai conservatori e ai liberali di questo Paese.
Nella Roma imperiale le famiglie più ricche si prendevano l’onere di investire nella costruzione di opere pubbliche e poi si impegnavano anche a pagare i costi della loro manutenzione. Dovremmo considerare furiosi bolscevichi anche loro?
Bisognerebbe entrare nell’ottica che queste politiche non sono rapine alla collettività, ma uno strumento di giustizia sociale volto alla crescita del paese. Dopodiché le si può criticare sottolineandone i punti deboli, che nel caso di questa patrimoniale non sono pochi.
Viviamo in un regime economico globale neoliberista, dove i più ricchi non avranno grossi impedimenti nello svincolarsi da questa tassa. E il rischio è che a pagare il prezzo più alto sarebbe la classe medio-alta, non i super ricchi.
La destra italiana avrebbe fatto meglio a concentrarsi sulla critica di questi aspetti, difendendo apertamente gli interessi del suo elettorato. Ma perché far passare gli interessi di una fetta minoritaria degli italiani come gli interessi di tutti?
Sarebbe stato più utile assistere a un dibattito costruttivo, che mettesse in luce le carenze e i limiti dell’emendamento, ma la destra italiana ha preferito evocare improbabili spauracchi comunisti facendo appello alla classe media. Una classe che per giunta non verrebbe colpita dalla patrimoniale.
Una vecchia tattica, quella dell’evocazione della minaccia comunista (anche quando non c’è), utilizzata dalle destre di questo paese sin da inizio ‘900. Peccato che quel nemico oggi non esista più. La proposta avanzata da Fratoianni e Orfini può essere considerata tuttalpiù una proposta socialdemocratica e progressista. Certamente non è una politica comunista.
Lo spettro del comunismo sembrano vederlo solo loro, perché nel Paese non ce n’è quasi più traccia da decenni.