L’ordinarietà dello straordinario: La Storia, la fiction Rai di Francesca Archibugi

«La Storia, si capisce, è tutta un’oscenità fin dal principio».

Scrive Elsa Morante, lo sguardo fermo e tagliente rivolto a un’Italia devastata, il cuore sbranato dalla polvere e dai detriti della guerra, dalla fame, da un’umanità sbilenca che si muove a fatica ma nonostante tutto. Lo stesso sguardo incantato e disincantato che il pubblico presente in sala Sinopoli punta sul grande schermo, in attesa che quella stessa Storia, «scandalo che dura da diecimila anni», si srotoli davanti ai suoi occhi, producendo l’effetto stordente e scandaloso che nel 1974 fecero le parole della scrittrice, a seguito dell’uscita nelle librerie di uno dei romanzi più importanti del Novecento. 

Ci troviamo all’Auditorium Parco della Musica, in occasione della XVIII edizione della Festa del Cinema di Roma. È qui che vengono proiettate le prime due puntate de La Storia, la nuova serie tv in otto puntate diretta da Francesca Archibugi, sceneggiatrice con Francesco PiccoloGiulia Calenda e Ilaria Macchia.

Dopo l’adattamento di Luigi Comencini del 1986, è la prima volta che lo scritto della Morante si rifà immagine in movimento, entrando nelle case degli italiani attraverso il piccolo schermo; come a seguire la falsa riga delle volontà della scrittrice, la quale volle che il romanzo venisse pubblicato da Einaudi in brossura, all’interno della collana economica, perché la Storia — la storia di tutti — fosse accessibile a chiunque, nessuna distinzione. 

La Storia che si propone di raccontare la serie, prodotta da Picomedia con Rai Fiction e Thalie Images (che andrà in onda sui canali Rai nella primavera del 2024), è infatti la storia di un patrimonio carnale e genetico, quasi di un destino, che insegue, rincorre, balla nel sangue come una taranta e poi detona all’improvviso, portando a conseguenze inaspettate che, tuttavia, sembrano scritte. 

Come il destino di Ida Ramundo, vedova Mancuso — magistralmente interpretata da Jasmine Trinca — figlia di madre ebrea e padre anarchico, ma anche di una Roma ormai scomparsa, fatta di corpi e di quotidianità scompagnate che si arrangiano come possono, che fanno la fila per il pane, che mangiano solo patate. 

Ida è il perno dolorante su cui ruotano tutte le Storie: quella universale e quella della sua famiglia, quella di un quartiere, San Lorenzo — che nel 1943 verrà squarciato dalle bombe — e quella delle persone che le gravitano attorno; uomini ma soprattutto donne, combattenti e vilipese, martiri e pettegole. Donne che senza andare in guerra, la combattono tutti i giorni come massaie, maestre, mendicanti, vedove. Come madri. Sopratutto madri.

Ida stessa lo è, per scelta ma senza scelta: di un figlio quindicenne, Nino (interpretato dall’esordiente Francesco Zenga), innamorato fervente del regime fascista, e di Giuseppe, “Useppe”, nato dalla violenza subita da un soldato tedesco.

Ida è madre due volte: di un adolescente ribelle vestito da balilla e di una creatura piccola e prematura, dagli occhi azzurri enormi come la vergogna che le si incolla ai vestiti quando, finito tutto, si lava, si riveste e scende in strada per prendere il tram 11, quello che la porta alla scuola di Porta Maggiore, a lavoro, come ogni giorno. Come se non fosse accaduto nulla. 

“Useppe”, la cifra ariana di una famiglia destinata al massacro, rimane a casa, nascosto nella piccola culla di legno. Nino, che vuole andare in guerra, non va più a scuola, si perde fra le strade di una Roma color seppia, schernisce il professore in compagnia di quegli amici che, come lui, non credono più in nulla se non nella “Patria del Duce”.

La guerra inizia da qui, dai conflitti interni al povero appartamento di via degli Equi, per poi scendere nelle strade già assediate dai tedeschi, entrare nell’osteria di Sor Remo (interpretato da Valerio Mastandrea) e posarsi come fuliggine sulle mani di quel popolo che vive le borgate, la solidarietà del silente antifascismo, gli squadristi, le prime rettate.

Nei panni di Ida, Jasmine Trinca cammina veloce, con le braccia strette al corpo e gli occhi gonfi di una luce nuda, disperata, che la avvicinano a una giovane Anna Magnani, simbolo di una romanità originaria e icona indiscussa a cui l’edizione di quest’anno della Festa del Cinema è dedicata.

Il Neorealismo rinasce un po’, Roma si spoglia vestendosi di una luce intensa, quasi tremante.

Le riprese sono lente, compassate; Francesca Archibugi sosta a lungo sui rapporti umani, impiega molto tempo per distendere le pieghe più intime e fragili dell’amore, dell’odio, delle scelte che si è costretti a prendere e di quelle che si subiscono. Per capire qualcosa di viscerale ed essenziale come la maternità, infatti, non servono gli schiocchi continui delle bombe, basta un istante, rivolgere lo sguardo alle inquadrature che intrappolano i tremuli sussurri rivolti a un pancione di cui nessuno sa nulla. Perché una madre si aggrappa a tutto per restituire la vita, in ogni tempo, anche a quel granello di vita che si porta dentro, carne e sangue che le confermano ogni istante di non essere sola. 

Fra le urla silenziose che squarciano le strade, mentre gli orrori dell’Olocausto baluginano sullo sfondo come pallido miraggio, è proprio in nome di quello stesso sangue, portatore di sventura e di speranza, che Ida si metterà in viaggio. 

Sostenuta da un cast d’eccezione, tra cui figurano i nomi di Elio GermanoAsia Argento, e un giovane Lorenzo Zurzolo, la serie si propone di restituire al grande pubblico — facendo affidamento alla fotografia di Luca Bigazzi, alla scenografia di Ludovica Ferrario e ai costumi di Catherine Buyse e Valentina Monticelli — la grandezza delle “cose inutili”, delle “creature senza nessun potere” tanto care alla Morante, le uniche che, non possedendo altro che la volontà di combattere, strette da una catena che morde loro lo spirito, fanno del loro coraggio la vera Storia della loro vita.

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