Ressa, Muratov e il Nobel per la pace: uno spiraglio di luce

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Quando si parla di Nobel per la pace è automatico pensare a politici e religiosi, uomini e donne che fondano associazioni per il bene dei cittadini, la salvaguardia dei loro diritti e la tutela dei più deboli. Sicuramente non si pensa ai giornalisti, o quantomeno il collegamento non è immediato. È forse complice la storia del noto premio che dal 1901 a oggi premia soltanto quattro giornalisti in tutto, gli ultimi due proprio quest’anno.

I primi due premi risalgono a molti anni fa. Era il 1911 quando Alfred Hermann Fried si vide assegnare il premio come contributo per il suo impegno nella diffusione della filosofia pacifista. Passeranno anni prima di vedere assegnare il Nobel a un altro giornalista. È precisamente il 1935 quando Carl Von Ossietzky riceve il Nobel per una ricerca durata anni sulla pace, che gli valse le inimicizie dello stato tedesco. Il premio però non poté essere consegnato: Ossietzky era allora malato di tubercolosi e, inoltre, le ingerenze dei nazisti ne impedirono la scarcerazione. A seguito del suo attivismo pacifista Ossietzky era stato incarcerato e poi deportato nel campo di concentramento di Sonnenburg sin dal 1933. Da allora c’è stato un lunghissimo silenzio.

Silenzio che ha premiato di anno in anno per giusto merito uomini, donne, associazioni e uffici di cooperazione internazionale, ma mai giornalisti. È il 2021 l’anno del grande cambiamento perché, per la prima volta, l’assegnazione doppia del Nobel va a ben due giornalisti: Maria Ressa e Dmitry Muratov. Premiati, come si legge: “per i loro sforzi per salvaguardare la libertà di espressione, che è una condizione preliminare per la democrazia e una pace duratura”.

La loro è una storia con delle grandi similarità, sia Ressa che Muratov hanno lottato con le loro parole per la libertà di espressione. Hanno subìto ritorsioni e minacce eppure, fino a qualche giorno fa, quasi nessuno conosceva i loro nomi; il che è un paradosso: lavorano per portare alla luce verità e fatti, ma rimangono condannati nell’ombra. È forse perché nel nostro paese si fatica a percepire il clima di repressione della libertà di espressione, come sicuramente lo si percepisce nelle Filippine e in Russia? O magari perché, più semplicemente, ignoriamo che la libera espressione e informazione non vengono messe in costante pericolo solo nei paesi non democratici, ma anche in quelli in cui la democrazia viene definito un caposaldo fondante. 

Che significa quindi vincere il Nobel per la pace nel 2021 in quanto giornalisti? Significa che dopo anni si è aperto un nuovo spiraglio, che porta a Ressa e Muratov non tanto la fama per aver vinto un premio illustre, quanto la soddisfazione di vedere il loro lavoro universalmente riconosciuto. E non solo il loro lavoro, ma quello di chi come loro ogni giorno rimane invisibile affinché i fatti più turpi, le inchieste e le vicende più rischiose arrivino a galla, svegliandoci dal momentaneo torpore in cui noi sprofondiamo, sicuri delle nostre libertà e ignari di come vengano ogni giorno calpestate un pezzettino alla volta. 

Significa dare speranza, tornare a credere in una professione che viene minata di continuo dal cattivo modo di fare giornalismo; un modo che asseconda i potenti, che si trasforma in propaganda, che si subordina al potere politico ed economico, che omette i fatti e si dimentica di proteggere dagli abusi. Grazie a Maria Ressa e Dmitry Muratov, così umili da pensare di non meritarsi il premio, chi come me dalla terza elementare sogna di lavorare in questo campo ha finalmente intravisto una scialuppa di salvataggio a cui aggrapparsi.

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