“Ti mangio il cuore”: intervista a Francesco Patanè

Un film in bianco e nero su una faida, ormai passata, della mafia del Gargano, inizialmente può spaventare. Non tanto a livello conscio, quanto piuttosto per i costrutti mentali involontari che ci portano a rifiutare drammi lontani da noi. E questa storia, in effetti, è lontanissima.

Tratta dall’omonimo libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, la storia segue le vicende di due famiglie mafiose pugliesi quando, nel 2004, una serie di fatti portarono a svariati omicidi; da tutto ciò si allontanò Marilena, prima pentita della mafia del Gargano, ancora oggi sotto protezione. Il suo personaggio è interpretato magistralmente da Elodie, affiancata da un cast altrettanto eccezionale; tra questi, Tommaso Ragno, Michele Placido e Lidia Vitale, attori con una spettabilissima carriera alle spalle. E ovviamente Francesco Patanè, il coprotagonista a cui ho posto alcune domande, che hanno dato vita ad una conversazione illuminante.

Come è cambiato il rapporto con il tuo personaggio, Andrea Malatesta, durante il film e fin dalla prima lettura del copione? Ti piacerebbe sentirti legato a lui o vivi la relazione in modo conflittuale, data la sua trasformazione in negativo?

La prima volta che l’ho letto ho percepito subito la bellezza del personaggio e della sua evoluzione, vi ho sentito molto Shakespeare, la tragedia greca, Macbeth (che adoro). Ho pensato che fosse una sfida interessante, l’evoluzione da buono a cattivo, il suo perdersi sempre di più nella storia. Ho subito sentito che sarebbe stato un viaggio difficile ma emozionante.

Inizialmente cercavo di farlo passare per me, di identificarlo con la mia persona, per esempio a livello fisico e soprattutto nello sguardo. Quando ho iniziato a lavorarci con Pippo Mezzapesa, il regista, ho capito che ciò che io portavo nell’arco narrativo era giusto, perché raccontavo il bene e il male ma, antropologicamente parlando, a livello umano, non lo conoscevo. Lui è figlio di un boss ma, a differenza della mafia cittadina, un contesto che conosciamo bene, questo è boss pastore, parte di una mafia rurale e di una storia antica; questa è una vicenda fuori dal tempo, come ben raccontato dal film, e se ha un tempo è sicuramente passato. 

La difficoltà è stata trasportare ciò che avevo intuito al provino, leggendo il copione, nel corpo nella mente di un ragazzo cresciuto a latitudini diverse dalle mie, con una cultura profondamente differente. Sicuramente più semplice, nel bene e nel male: se ama ama, se odia odia. Non va in profondità, non ha sfumature, queste gli escono per sbaglio e non le comprende neanche lui. È molto più simile all’animale che all’uomo, si abbandona all’istinto nel sesso e nella violenza, potremmo quasi dire che sia più vicino a un lupo o a un cane, piuttosto che a una persona.

È molto complesso pensare di poter raccontare storie come Macbeth o Romeo e Giulietta in queste terre di pastori. Puoi farlo ma da fuori deve somigliare alla vita vera. La difficoltà, infatti, è stata riportare Andrea sempre a terra, a quella culturale ancestrale e rurale, sporca di fango. Una cultura che lecca sangue. 

Quindi il distacco da Andrea è stato qualcosa che hai maturato fin da subito?

In realtà l’ho maturata dopo, prima lo comprendevo bene. Più ci lavoravo, però, e meno lo capivo: io non mi sarei mai perso in quel modo, avrei cercato di giustificare le mie scelte, mentre lui non lo fa. 

Spesso quando ti avvicini a qualcosa ti sembra subito di perderla; una frase in cui mi ritrovo è “una volta trovata un’idea bisogna iniziare a cercarla”. Io ho fatto il provino per istinto, mi hanno preso e a quel punto mi sembrava di avere in mano il personaggio. Una volta ottenuto, tuttavia, più lo studiavo e più mi allontanavo da quell’intuizione.

Andrea compie senza dubbio un salto importante nel film. Quale dei due lati ti è piaciuto più interpretare, quale hai vissuto in modo più intenso?

Forse, quella che ho amato di più è stata  la scena in cui Andrea si scopre omicida. È stata molto intensa, con una mano tenevo  il vecchio Andrea, con l’altra quello nuovo, in un gioco a lasciare e riprendere in cui avevo uno sguardo totale sulla sua personalità; questa adrenalina del “l’ho fatto, adesso posso fare tutto” rendeva tutto più accessibile. 

Certo, lui si perde e si ritrova di continuo, ma è solo quello il momento in cui si perde del tutto e non riesce a trovarsi. Ma, va detto, non si cerca neanche. 

Immagino che il lavoro sul dialetto sia stato importante e devo dire che i risultati sembrano ottimi. Che altro hai fatto per avvicinarti a quel contesto culturale e sociale?

Sulla lingua c’è stato un lavoro gigante con Dino La Cecilia, attore del film e coach di dialetto. È stata un’esperienza totalitaria, perché, implicitamente, il dialetto indica anche il modo di porsi fisicamente. L’avvicinamento è risultato quindi generale: con il dialetto impari anche il modo di pensare e di relazionarti, può raccontare molto di come uno vede le cose. Quando replicavo foneticamente,  mi avvicinavo a quella terra e i gesti venivano da soli.

La storia, inoltre, è vera e bellissima, come si può leggere nel libro. Io non conoscevo niente, quindi avvicinarmi è stato ancora più intenso (Elodie ha addirittura conosciuto la vera Marilena, che ha ispirato il suo personaggio).

È una storia che nella provincia di Foggia tutti respirano e conoscono; la mafia garganica e foggiana, infatti, è molto infiltrata nella pubblica amministrazione, molti comuni negli anni sono stati commissariati proprio per infiltrazioni mafiose. Il jolly di queste mafie è proprio questo: sembrano realtà rurali e fuori dal mondo, si colpiscono tra di loro mentre i civili vivono di omertà, sono lasciati stare. Per loro è quasi come fare politica: in quei territori, sono molto più presenti dello Stato.

Dunque, Elodie ha conosciuto la vera Marilena. E il vero Andrea Malatesta, invece?

La sua è una storia strana, perfettamente raccontata nel libro; è stato condannato a tre ergastoli ma ha tentato più volte il suicidio, perché dice di sognare sua madre che gli chiede altro sangue. Sono frasi che sembrano uscire da opere letterarie, inventate, ma è tutto vero, loro parlano così. Come diceva Sallustio, “i miti non furono mai ma sono sempre”: la storia di Romeo e Giulietta magari non è mai successa, ma allo stesso tempo accade continuamente, tutti i giorni. E credo che sia proprio questo il bello.

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