Verba manent: il giornalismo davanti alla guerra

Da settimane si combatte l’ennesima guerra del pianeta, la seconda esplosa alle nostre porte. Prima l’Ucraina, ora Israele e Gaza. Come si stanno comportando il giornalismo, la televisione, il dibattito pubblico nei confronti della guerra?

Può sembrare una domanda banale – “come devono comportarsi, mica i giornalisti imbracciano il fucile” – tuttavia la realtà ci mette davanti a uno spettacolo pietoso, che si ripete, anzi va in scena, per meglio dire, ogni giorno. Innanzitutto, è opportuno correggere l’inciso di cui sopra, volutamente provocatorio: se è vero che il giornalista non va a sparare in trincea, è altrettanto vero che ricopre un ruolo fondamentale. Filtro, mediatore, informatore, fonte di verità che attinge dalla fonte meno inquinata; chiamatelo come vi pare, ma resta l’unico professionista che può farci capire come vanno le cose di là dal fronte. 

In una società con una tripartizione perfetta del potere, con la stampa in aggiunta a mo’ di stampella e controllore degli altri tre, la maggior parte dei cittadini dovrebbe essere correttamente informata sugli sviluppi delle guerre. Bello, ma è utopia. Dalle nostre parti, alla sera, vanno in scena rappresentazioni più teatrali che giornalistiche, quando si parla di guerra. Imam contro rabbini, personaggi spariti oggi in cerca di riaffermazione, convertitisi a ideologie assurde pur di essere invitati in televisione, presunti terroristi intervistati nelle loro case, risoluzioni ONU messe in discussione senza fondate argomentazioni da nostalgici del signor baffone; l’elenco è lungo. Sul palco costoro, guidati dalla regia di un conduttore notoriamente a favore o dell’una o dell’altra idea, che talvolta tenta l’imparzialità, talaltra si getta anch’egli nella rissa del vaniloquio.

Quale l’effetto sugli spettatori? O lo zapping, se va bene, oppure un dannoso avvicinamento a posizioni radicali, sbagliate, prive di ragionamento e conoscenza che quel programma, quell’emittente dovrebbe dare. Non si salva neppure la carta stampata, ce n’è per tutti: giornali che dovrebbero assumere posizioni bipartisan, giacché nella top 3 della tiratura nazionale, ospitano sulle proprie colonne posizioni scellerate di soloni anti israeliani per preconcetto, vicini al popolo palestinese ma senza troppo aggredire chi da più di un decennio lo tiene in ostaggio. Idem dall’altra parte della barricata, dove direttori ed editorialisti di punta indossano la kippah da qualche settimana e non guardano alle irregolarità che in guerra, purtroppo, si commettono. 

Si sono dimenticati dell’Ucraina, ma anche lì si combatte. C’è sempre il tiranno Putin, che però, finché sembrava essersi riconvertito sulla giusta via in compagnia dei nostri leader occidentali, tutto sommato non dispiaceva tanto; c’è sempre l’aggredito Zelensky, che invoca armi, armi e ancora armi all’Occidente.

E poi ci sono gli italiani, i lettori, i telespettatori. Stanchi di questo modo di fare informazione, annoiati, anziché divertiti, dal battibecco deciso a tavolino dietro le quinte, disinteressati, alcuni purtroppo fuorviati. “Si stava meglio quando si stava peggio” è perfino troppo. 

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