Verba manent: la Grande Bellezza del secolo

Paolo Sorrentino, uomo d’arte che non si accontenta del banale, desiderava mettere in scena ambiziosamente il vizio e la bellezza nella cornice della storia eterna. Vizio e bellezza, le due facce di Roma e della sua società di salotti sine nobilitate. Nel 2013, Sorrentino produsse “La grande bellezza”, pellicola che lo condusse agli Oscar. Recentemente, è stata inserita come primo film italiano nella top 100 dei migliori film del secolo stilata da Guardian. Un premio meritato, manifestazione della cultura italiana apprezzata nel mondo e dell’arte riconosciuta a livello internazionale.

Un titolo semplice, scelto per un film complesso. La bravura di Sorrentino è stata quella di capire le dinamiche della mondanità romana, quella piccola fetta di società sconosciuta ai più, soprattutto a lui, napoletano di nascita. E da lui stesso criticata. Alla base degli intrecci tra religione, politica, etica e dramma c’è la semplicità, tramite la quale il regista ha voluto mettere in luce la vanità di tutto il resto; la vita fugge e insieme ad essa tutte le leggerezze futili. Resta, sul fondo, la purezza di Suor Maria, la “Santa”, che vive in povertà e non mangia altro che legumi, che offre la sua vita a Dio. Il bianco e il nero della modernità.

Il film è un viaggio, che parte dal ricordo del protagonista, attraversa la vita dissoluta e finisce religiosamente nel ricordo di una vita che poteva essere e che non è stata.

Con “La grande bellezza” abbiamo dimostrato al mondo che Roma, oltre che una storia millenaria, ha una vita segreta, fra sotterranei nascosti e danze notturne sui tetti più esclusivi. Sorrentino ha svelato il mistero della serratura, ha scovato la chiave che apre la porta dei segreti; ci ha consegnato un capolavoro con l’impegno di comprenderlo. Noi, d’altra parte, possiamo limitarci ad ammirare la grande bellezza o scoprire unicamente la bellezza. Quella semplice, il messaggio autentico, che il regista ha voluto lasciare in eredità.

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