Inchiostro e caffè: “La Ginestra”

A Portici, come in tanti altri comuni circumvesuviani, ci sono balconi che guardano il mare dall’alto e, alle loro spalle, balconi che guardano il Vesuvio da sotto in su. È una visione straniante: non si riesce a staccare lo sguardo dalla montagna che incombe, come una minaccia silente o un gigante buono. Buono, finché non vomita flussi piroclastici. Il 79 d.C. insegna.

Nel 1835, anche Giacomo Leopardi deve aver provato qualcosa di simile. A Torre del Greco la vista non è poi così diversa. Gli deve essere venuto naturale, tra un disagio e l’altro, tra un colpo di tosse e una visita medica, meditare su questa presenza, su questo vulcano. Allora ha preso penna e foglio e l’ha chiamato formidabile, terribile, sterminatore.

Si è rivolto all’unica forma di vita degna di ascoltare le sue meditazioni: una pianta di ginestra.

Gli uomini, dice Leopardi, sono molto sciocchi. Vivono nelle illusioni e si nutrono di esse: credono di poter controllare il mondo o il tempo, di poter piegare le circostanze, di mettersi di fronte alla natura e fermarne la corsa. Abbiamo appreso, ultimamente, che non è possibile, ma già Leopardi si era reso conto che la natura è superbamente indifferente a ogni nostro disagio. Peccato che non impariamo mai: ogni secolo resta un “secol superbo e sciocco” e ci perdiamo nelle nostre corse, a decantare le “magnifiche sorti e progressive”, le conquiste della nostra epoca. Ci illudiamo che il male non esista o che troveremo qualche miracolosa panacea. Intanto tutto passa (anche la vita, a quanto pare), e rischiamo di consumare il nostro tempo così, sentendoci svuotati e poco lucidi alla fine di ogni giornata.

La ginestra va controcorrente: annidata dove la lava potrebbe improvvisamente annientarla, svolge la sua funzione primaria. Si accontenta di esistere, di esser gialla, di profumare, finché non sparisce per sempre nella lava o nella cenere. Quanta dignità nella bellezza! Che resilienza, la capacità di non negare il male, ma di riconoscerlo e di opporgli, semplicemente, una resistenza docile e serena.

Pessimista, questo poeta? No, o quantomeno non più: non in questa poesia, che i critici considerano il suo testamento spirituale.

Solo, estremamente lucido e coraggioso nel descrivere la realtà. Svelato il mistero, accettata la presenza del male, resta all’uomo una soluzione e una soltanto, che Leopardi chiama a sé come se l’avesse attesa tutta la vita: una “social catena”. Vale a dire: il male esiste. Continueremo a soffrire. La morte non sparirà improvvisamente, non finiremo di sentirci soli o inadeguati. Non infieriamo con i nostri simili, però. Siamo solidali gli uni con gli altri, formiamo una catena sociale.

Quest’uomo era un poeta, non era il Papa e non credeva in Dio (anche se è nato nello Stato della Chiesa); ma anche lui ci ha detto, con la fermezza e la dignità di chi ha sofferto tutta la vita, che nessuno si salva da solo.

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