Quel popolo che non sceglie

Quella del 12 giugno passerà alla storia come la peggior tornata referendaria di sempre: ha votato un italiano su cinque, circa il 20%. I cittadini hanno perso un’occasione importante per dimostrare che la giustizia improba e la magistratura “alla Palamara” possono essere ridimensionate in positivo, grazie alla sovranità popolare. Complici un disinteresse generale della collettività verso gli affari pubblici, la mancata mediazione degli organi di stampa e televisivi e una classe politica promotrice dei referendum piuttosto distratta ultimamente, è stato disatteso un appuntamento chiave. Non tanto per trasformare magicamente il sistema, quanto per iniziare a muovere le acque di un mare calmo, inspiegabilmente, da troppo tempo. 

In primo luogo, una disattenzione rilevante va attribuita all’elettorato. Da tempo stanco della politica, progressivamente riduce l’affluenza alle urne (le elezioni amministrative di settembre, che hanno impegnato i capoluoghi principali, e quelle appena trascorse, lo dimostrano) e rinuncia all’esercizio del proprio dovere – non solo del proprio diritto – come ricorda l’art. 48 della Costituzione. La riflessione interessante riguarda il parallelismo che l’elettorato, in genere, fa tra politica in senso stretto (ossia classe politica) e temi che abbracciano la politica ma non le si sovrappongono. I quesiti sulla giustizia sono stati percepiti come lontani, oltre che tecnici, anche perché ritenuti affini a quei partiti che li hanno promossi: Lega, ormai lontana dalle folle del 34% e + Europa, maceria di una potente, fin troppo pesante eredità radicale. 

Infatti i promotori, soprattutto il Carroccio, sono partiti in quarta all’inizio dell’anno, salvo poi scalare direttamente in seconda e frenare, a tratti, nel traffico degli argomenti – come la guerra. In più, la scelta di sfruttare due volti televisivi come Bongiorno e Calderoli, opposti per caratura e professionalità e ciononostante entrambi in grado di superare un’eventuale scottatura a urne aperte, poteva far capire che Salvini non credesse granché nell’esito dei referendum. Così, onde evitare il rischio di personalizzare troppo il voto, come fece l’altro Matteo nel 2016, ha lentamente allentato il tiro della propaganda. Anche perché la Consulta ha bocciato altri due quesiti, la legalizzazione della cannabis e l’eutanasia, che se accettati avrebbero attirato molte più persone ai seggi. 

Si discute molto circa la tecnicità elevata dei quesiti, oltreché la difficoltà concettuale degli argomenti. Come poteva l’italiano medio comprendere appieno interrogativi riguardo alla custodia cautelare, alle funzioni di organo giudicante e inquirente et cetera? Semplice: grazie a un’informazione puntuale ed esplicativa, che non c’è stata. Se valesse la precedente domanda a mo’ di obiezione, allora gli italiani dovrebbero votare solo su ciò che capiscono bene, magari il calcio – e anche lì ci sarebbe bisogno di qualcuno per spiegare qualcosa. Nel 1987 si votò il referendum sull’energia nucleare, con un’affluenza del 65%; eppure negli anni 80 gli italiani non erano in gran parte ingegneri nucleari! L’errore, forse voluto, quindi, è stato quello di non informare correttamente. Sarebbero bastati dei confronti televisivi a cadenza settimanale, sulle reti pubbliche e private, a partire da gennaio. Più tempo per condividere le informazioni e le opinioni, più varietà di ospiti. Invece il servizio pubblico ha dedicato tempo ai referendum solo allo scadere di una settimana dal voto, i partiti hanno mandato avanti le stesse facce di sempre, che fino al giorno prima erano sulle stesse reti a discutere di armi e geopolitica e i giornali, soprattutto alcuni, hanno dimenticato l’argomento per settimane. Addirittura “Repubblica” ha invitato a votare “No” o a non recarsi alle urne; scelta legittima, scrivevano. Come se in un Paese incurante della cosa pubblica invitare a non votare, perché “scelta legittima”, sia un messaggio degno di nota per un giornale. 

Viene da chiedersi, infine, se questo popolo italiano, così pigro e attendista, possa essere ancora centrale nell’esercizio della sovranità. Che appartiene al popolo, come è scritto, in maniera monumentale, al primo articolo della Costituzione. Sì, ma a quale popolo? A quello che si disinteressa della politica perché “tanto sono tutti uguali”, però poi si lamenta che i ristori non arrivano e che i bonus sono distribuiti in maniera disomogenea? “Al popolo”, in generale, scrissero i padri costituendi. Quel popolo che ebbe il coraggio di ribellarsi contro il democristianesimo e i dogmi del cattolicesimo, scegliendo di legalizzare l’aborto, diritto naturale delle donne di disporre liberamente del proprio corpo, forse oggi non c’è più. Lo chiamano sempre “popolo”, ma i tempi cambiano. E con essi, scriveva Cicerone, anche i costumi. O tempora, o mores. 

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