Turchia, elezioni del 2023 alle porte: fragilità interne e reputazione esterna

La Turchia è ormai entrata in clima elettorale con le urne previste per maggio / giugno 2023. Un anno importante perché segnerebbe il centenario dalla fondazione della moderna Repubblica di Turchia (1923), ma non solo: Erdoğan mira a riconfermare il suo ruolo di guida politica e spirituale della Nuova Turchia (Yeni Türkiye).

Un’ambizione lecita ma non del tutto scontata perché ad oggi il Paese si trova ad affrontare nuove sfide sia interne sia esterne, frutto anche del capillare se non a tratti meticoloso controllo che lo stesso Presidente esercita su tutta la vita pubblica turca. Una pressione sulla società civile e sugli artisti turchi che è diventata abbastanza forte e ha inasprito il malcontento nei confronti dell’attuale gestione, in perdita di consensi. Insomma, è chiaro che si sta assistendo ad una “rivoluzione” silente della società che – pur limitata nella sua autonomia – rivendica un certo grado di indipendenza.

Come tutte le elezioni presidenziali, amministrative e non turche, la “caccia alle streghe” diventa un leit motiv che non può mancare per nessuna ragione. Le condanne e gli arresti di chiunque – artisti, personaggi pubblici, giornalisti, scrittori, politici – tenti di distanziarsi e criticare l’operato del proprio governo sono numerose, ormai non si contano sulle dite delle mani. Misure ancora più drastiche rispetto al solito, giustificate da una serie di circolari pubblicate ad inizio dell’anno con l’obiettivo di proteggere la cultura nazionale e prevenire la corruzione sociale. I primi colpiti da questi provvedimenti sono stati i media e le trasmissioni digitali, chiuse e/o condannate perché ritenute “contrarie ai valori fondamentali della società”. Nemmeno l’ironia, o la nostra cosiddetta satira giornalistica che ci caratterizza nel mondo, è ammessa. Persino il mondo dello spettacolo è entrato nel mirino del Sultano: la popolarissima cantante pop Sezen Aksu è stata presa di mira dal quotidiano filogovernativo Yeni Şafak e dal sindacato degli affari religiosi di Van per il testo di una sua canzone del 2017, Şahane Bir Şey Yaşamak (Vivere è una cosa meravigliosa). La Procura di Istanbul ha ricevuto l’accusa per svilimento dei valori religiosi, recitando la frase “Salutate quegli ignoranti di Adamo e Eva”, vista come un insulto ai valori religiosi. Su tutti i social è stata lanciata la campagna accusatoria rivolta alla cantante #sezenaksuhaddinibil (Sezen Aksu stai al tuo posto), trasformatasi poi in una protesta di strada davanti alla sua abitazione. Molti, però, sono scesi in piazza anche per difenderla: in primis la giornalista curda Nurcan Baysal, che le ha dedicato il suo editoriale “Sezen Aksu non ci ha mai lasciato, neanche noi la lasceremo”, in riferimento alla sua carriera di ben quarant’anni in cui si è impegnata anche per i diritti umani.

Dunque, ad oggi il malessere in Turchia è tangibile: la mancanza di libertà di espressione è palese, la libertà di pensiero manca del tutto e per giunta il tutto è aggravato dall’aumento dei prezzi e dalla crisi finanziaria in corso per cui ci sono quasi ogni giorno proteste e scioperi che, però, non ha il giusto riscontro mediatico e politico che invece servirebbe.

Debolezze interne

L’AKP è diventato ormai un partito sempre più conservatore ed identitario, formato dai più fedeli di Erdoğan, ma che tuttavia presenta dei punti deboli. L’essere di destra estremista, portar avanti una politica di carattere poco democratico che cozzano un po’ con l’identità Repubblicana della Turchia, hanno portato persino all’esodo di iscritti al partito. Si sono riversati in quelli dell’opposizione – Gelecek e DEVA – prendendo le distanze da quell’atteggiamento estremista islamico necessario per riconquistare l’elettorato dell’AKP che pian piano sta cedendo. Le pratiche epurative, come le chiama Erdoğan, iniziano dal Primo Ministro degli Esteri (2009) Ahmet Davutoğlu che ha fondato il Partito del Futuro, partito di orientamento islamico conservatore, ed il suo posto è stato ricoperto da Binali Yıldırım. Molto deve la Turchia a Davutoğlu, perché fu lui che propose di rafforzare la figura della Turchia come nuovo punto di riferimento delle discussioni strategiche internazionali. Infatti, fu definito da Foreign Policy come “il cervello che sta dietro al risveglio globale della Turchia”.

Non mancano repressioni anche a livello di cariche istituzionali, come ad esempio quelle continue ai vertici della Banca Centrale che ha visto la sostituzione rapida del Ministro dell’Economia e della Finanza Lütfi Elvan. In Turchia, ormai, è consuetudine assistere alla rimozioni di incarichi, con la stessa facilità con cui è stato pensato il “decreto di mezzanotte”, con cui la Turchia tra la notte del 19 e la mattina del 20 marzo si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul.

L’eredità storica

L’accentramento di potere è diventato una prassi nella gestione di governo da parte del Presidente, che vuole mantenere il controllo di ogni livello decisionale al fine di incoronarlo come unico leader indiscusso della Nuova Turchia.

Se riflettiamo bene, potrebbe essere un’eredità storica: Atatürk, purtroppo, è morto prematuramente nel 1938 lasciando ai suoi successori un grande progetto di cui si avevano alcune basi ma di cui non aveva scritto il finale. Per questo Erdoğan, per certi versi, ha già vinto: lui ed il suo partito non sono altro che il prodotto di dinamiche di un sistema già delineato nella storia, evoluto nel tempo con impronta ideologica e dogmi kemalisti interpretati poi a proprio sentimento.

L’AKP ha avuto il suo successo negli anni 2000 perché ha affrontato con fermezza i colpi di stato e politiche repressive nei confronti dei gruppi islamisti estromessi dalla vita pubblica perché ritenuti una minaccia allo stato laico, come scritto in Costituzione. La militanza politica del giovane presidente inizia dai gruppi islamisti più conservatori e ispirati all’ideologia di Milli Görüş (Visione Nazionale), poi al Refah Partisi (Partito del Benessere) e la carica di sindaco di Istanbul. Ad inizio mandato, ha presentato al pubblico il programma di democrazia conservatrice, intesa come tutela delle tradizioni e dei valori religiosi rispettando quelli che erano i valori liberali di ogni democrazia, in cui l’avvicinamento all’Europa sarebbe stato obiettivo principale.

L’agenda europea è stata sempre una priorità per il Sultano, cercando in tutti i modi di guadagnare un posto privilegiato nella comunità internazionale, non contando che alcuni suoi dogmi cozzavano con le linee guida europeiste. Da questo, ne consegue il suo isolamento in linea con i motti “Pace a casa, pace nel mondo” e “Il miglior amico di un turco è solo un turco”.

Reputazione esterna

Le elezioni del 2007 e del 2011 hanno registrato diversi consensi per il governo di Erdoğan, percepito come modello a cui ispirarsi per i processi di democratizzazione in corso dopo le Primavere Arabe, percependo anche l’importanza che il Presidente dava alla politica estera, quasi prioritaria rispetto alla politica interna.

Il malcontento sociale riaffiora con le proteste di Gezi Park nella primavera del 2013, che rappresentano la prima vera sconfitta del governo che è ricorso a gas lacrimogeni e metodi repressivi per calmare i tumulti e disperdere i manifestanti. Da qui, i controlli dell’AKP si sono estesi ad ogni settore, in particolare quello informativo (i media) e gli oppositori (il gruppo di Fetullah Gülen.

Nelle elezioni del 2015 l’umore non era cambiato. Anzi, l’intolleranza contro il governo era aumentata. Ma i disaccordi tra i partiti e il susseguirsi degli attacchi terroristici di diverse matrici sono stati fattori determinanti per rinnovare la fiducia all’AKP (il noto Processo di Pace con le forze curde non aveva funzionato nel 2013).

In politica estera, prevaleva allora come ora l’approccio a zig – zag: Ankara oscilla tra i vincoli imposti dalle alleanze internazionali e la tutela del proprio interesse nazionale. Non sono mancate, comunque, tensioni con i partner importanti come la Russia dopo l’abbattimento del jet russo al confine turco – siriano che ha provocato un periodo di stallo delle loro relazioni diplomatiche, fino al golpe del 2016.

La Nuova Turchia, dunque, forgia nell’ideologia del Presidente una società di devoti musulmani fedeli ai principi della Nazione. Tutti coloro che vengono considerati nemici della Nazione subiscono pesanti condanne: è il caso dei golpisti di FETÖ, dei filocurdi e dei filantropi come Osman Kavala.

Con le elezioni del 2019, il partito di governo ha perso maggiore terreno nelle elezioni del Paese, soprattutto in città importanti come Istanbul. Sarà curioso ammirare come Erdoğan ce la metterà tutta per riconquistare la città più giovanile della Turchia per portare avanti la sua dottrina e i suoi valori. A livello regionale, la Turchia ha adottato una politica maggiormente assertiva a tutela dei propri interessi, proponendosi sempre come risolutore dei conflitti prima in Siria poi in Libia e Nagorno Karabakh. Si susseguono a questi i rapporti fluttuanti con la Russia, da cui Ankara ha acquistato contro il volere della NATO (se non anche un po’ per dispetto) il sistema difensivo S-400.

La mela non cade mai lontano dall’albero: il presidente ha sempre una costante preoccupazione di affermare la grandezza della Turchia, sganciandosi il più possibile dai vincoli internazionali come è stato con la Convenzione di Istanbul, ma da cui dipende per la maggior parte. Nonostante questo, ha messo in chiaro la sua posizione all’interno della Nazione: è lui che comanda e decide. Lo ha dimostrato con la riconversione in Moschea della chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, un atto puramente finalizzato alla riconquista degli elettori islamisti e nazionalisti estremi in un momento in cui l’AKP sta perdendo facilmente terreno.

A dare fastidio ci pensa l’opposizione composta dai partiti IYI, CHP, DP, Gelecek, DEVA, Saadet, che raccoglie gruppi con background diversi e talvolta opposti, ma uniti sotto lo stesso slogan “Per la Turchia del domani”. E di questo il Sultano ha paura, mostrando il lato di profonda fragilità interna dettato anche dalle difficoltà finanziarie del momento (inflazione alta). Svia con la politica del soft power sugli approcci assertivi che stanno caratterizzando la sua politica estera. Dall’Armenia ai Paesi del Golfo, Egitto ed Israele, oggi la Turchia costruisce la propria immagine di interlocutore affidabile, facendo perno sulle complementarietà strategiche e commerciali, sugli investimenti e sugli incentivi delle esportazioni.

Per ultimo, ma non per importanza, il suo ruolo nella guerra ucraina: Ankara predilige l’approccio diplomatico ad un eventuale coinvolgimento nel conflitto in corso. La guerra ha ripercussioni economiche non solo su Kiev, Mosca e l’intera Europa, ma anche sull’economia turca. Il fatto che Ankara abbia applicato la Convenzione di Montreux e abbia chiuso gli Stretti alle navi da guerra – cosa che non si è vista nemmeno durante gli anni della Guerra Fredda – dovrebbe essere interpretata come una forte condanna della guerra russa in Ucraina e un tentativo di mantenimento dello status quo dei rapporti di Ankara sia con l’Ucraina sia con la Russia, oltre che come mossa per riguadagnare credibilità agli occhi degli occidentali.

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